Catechesi di don Patrizio Milano (esorcista della Diocesi di Roma) sul Combattimento spirituale
INDICE
03. La diffidenza di noi stessi
05. L’esercizio (e l’orazione)
06. Il pensiero quale origine del peccato. La lettura impura della cosa in sé
07. Il processo attraverso il quale si arriva al vero peccato
08 Prima parte. L’esercizio della volontà e il fine al quale si devono indirizzare tutte le azioni interiori ed esteriori
08 Seconda parte. L’esercizio della volontà e il fine al quale si devono indirizzare tutte le azioni interiori ed esteriori
09. Molte volontà esistono nell’uomo. La guerra che si fanno tra loro
10. Come combattere contro i sensi
11. Prima parte. Quello che si deve fare quando la volontà superiore pare vinta
11. Seconda parte. Come combattere con fortezza d’animo l’amor proprio
12. L’ordine da osservare per combattere contro i nemici e le cattive inclinazioni
14. Prima parte. Il modo di combattere contro la negligenza
14. Seconda parte. Il modo di combattere contro la negligenza
15. Prima parte. Il modo di regolare e gestire i sensi esteriori affinché non prendano il sopravvento su di noi
15. Seconda parte. L’importanza di prendere coscienza di qual è l’inizio e il fine di tutte le azioni
16. Prima parte. La pace del cuore I
16. Seconda parte. La pace del cuore II
17. Il modo con il quale il demonio combatte e inganna l’uomo
18. Seconda parte. La presenza subdola del maligno tra noi e Dio negli accadimenti della vita
19. Prima parte. Il modo e l’inganno con cui il demonio ci tenta perché le virtù da noi acquistate siano occasioni di rovina
19. Seconda parte. Le nostre opere sono come niente e devono avere il loro inizio e la loro fine solo in Dio
19. Terza parte. Il significato del concetto di nulla
01. Che cosa bisogna fare per raggiungere la perfezione cristiana e quali sono le opere che non ci fanno andare in Paradiso (pars destruens).
La catechesi ha l’obiettivo di illustrare che cosa bisogna fare per raggiungere la perfezione cristiana e quali sono le opere che non ci fanno andare in Paradiso.
L’Autore inizia la sua analisi dal primo capitolo intitolato “In che consista la perfezione cristiana. Per acquistarla bisogna combattere. Quattro cose necessarie per questa battaglia” del trattato “Il combattimento spirituale” di Lorenzo Scupoli (1530-1610) dell’Ordine dei chierici regolari teatini.
I principali elementi oggetto della catechesi sono i seguenti:
- per raggiungere la perfezione cristiana è necessario il nostro cambiamento;
- il cambiamento deve avvenire non secondo i nostri canoni ma secondo quelli di Cristo; cambiare significa lottare, senza lotta si rimane come si è;
- il fine delle nostre azioni deve essere la comunione con Cristo, deve essere quello di glorificare Dio, immedesimarci con Lui ed entrare in relazione con Lui; il semplice svolgimento delle azioni non è gradito a Dio quindi no al ritualismo; se ci fermiamo all’azione (partecipare alla Santa Messa, recitare il Santo Rosario) ci auto gratifichiamo dell’azione compiuta e non diamo importanza all’entrare in relazione con Lui;
- la perfezione non può e non deve essere ridotta alla celebrazione egolatrica (da egolatria, cioè culto di sé stesso) di sé stessi; non siamo noi il centro dell’attenzione, non sono le nostre opere che ci santificano ma l’essere pronti a combattere. Siamo pronti a combattere ogni momento, ogni secondo? Se Dio ce lo chiede, siamo pronti a combattere adesso?
- Dio non ci preserva dalle tentazioni di Satana perché gli ha dato il permesso di tentarci, ma noi come rispondiamo alle tentazioni? Le combattiamo? Fin dall’inizio o ci crogioliamo in esse per un po’ (questo è il peccato)?
L. Scupoli, “Il combattimento spirituale” (https://www.monasterovirtuale.it/lorenzo-scupoli-combattimentospirituale.html)
02. Che cosa bisogna fare per raggiungere la perfezione cristiana e quali sono le opere che ci fanno andare in Paradiso (pars costruens)
L’Autore, nella prima parte, riprende e amplia l’analisi della prima catechesi soffermandosi sulle opere di penitenza (digiuni, flagelli) che nella maggior parte dei casi vengono esercitate per essere preferiti agli altri cioè mettendo il proprio ego al centro: facciamo questa opera di penitenza per farci riconoscere dagli altri come i migliori perché noi la facciamo. E se ci viene fatto notare che forse questa spiritualità non va bene non lo accettiamo. L’unico che può farci capire il livello di superbia raggiunto “è Dio in persona che scende dall’empireo, ci tocca nell’osso e ci fa precipitare in disgrazie e malattie”. A questo punto, come la maggioranza degli uomini, imputiamo a Dio la responsabilità delle nostre disgrazie e prendiamo le distanze da Lui che consideriamo la causa dei nostri mali. L’Autore cita l’esempio di Giobbe il quale, invece, nonostante le disgrazie che gli accadono, rimane fedele a Dio perché aveva una relazione autentica con Lui.
Il considerare Dio la causa dei nostri mali implica il non fidarci di Lui e non credere che Dio ci dà l’eternità e che ce la dà già ora con l’Eucarestia e che quindi siamo già ora nella vita eterna: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha (non avrà) la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Infatti, la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv. 6).
Altra inclinazione che emerge in questi casi è il vittimismo per le disgrazie che stiamo vivendo arrivando addirittura ad offrire tutto al Signore ma solo con la bocca mentre all’interno di noi stessi magari proviamo rancore e odio per un fratello o una sorella.
In sostanza, l’esibire le opere di penitenza invece di tenerle all’interno di noi stessi e di realizzarle nel nascondimento, non è altro che l’ipocrisia di cui parla Gesù nel Vangelo.
Dio vede dentro di noi, vede il nostro passato e il nostro presente, vede i peccati che abbiamo fatto e che facciamo e se non gli permettiamo di farceli vedere, di dirci la verità, non cresceremo mai spiritualmente. Dio non ci dice che abbiamo sbagliato per denigrarci ma per farci prendere coscienza della nostra vera identità che non è quella della maschera che ci siamo messi addosso. Solo accettando la verità su noi stessi e prendendo coscienza della nostra vera identità potremo iniziare un autentico cammino di fede. E’ come se ci mettessimo addosso il profumo senza lavarci: sembra che profumiamo ma in realtà puzziamo.
E allora, quali sono le azioni che dimostrano il nostro cambiamento? Che cosa di noi manifesta che siamo sulla via della perfezione cristiana? Che cos’è la perfezione?
La perfezione è una strada aperta: ha più possibilità di salvarsi un pubblico peccatore che si converte piuttosto che il peccatore occulto, il presunto santo che si ammanta di virtù che sono solo apparenti.
Che cosa è la virtù? La virtù è un permanere nel tempo di una ‘dinamica di scelta’. La virtù è quella cosa viene fatta sempre, indipendentemente dal luogo, dagli eventi e dalle persone: non possiamo dire che abbiamo la virtù della carità perché a Natale facciamo qualcosa per gli altri perché è Natale e a Natale siamo tutti più buoni. Per dire che è una virtù, la carità dobbiamo farla tutti i giorni, tutti i momenti.
L’Autore passa poi ad esaminare che cosa è la perfezione cristiana e cosa è necessario fare per raggiungerla (pars costruens).
I principali elementi sono i seguenti:
- abbandonare tutto ciò che è legato al nostro ego, relativizzare il nostro potere egolatrico che significa che il nostro io deve lasciare il posto a Dio (Carlo Acutis ha detto: “Non io ma Dio”) perché il termine ultimo della perfezione è Dio non noi;
- smettere di mettersi al centro, rinnegare sé stessi, abbandonarsi al Suo Amore, mettere Lui al centro di tutto, volere e fare questo per la gloria di Dio, per piacere a Lui;
- non mettere da parte la nostra parte positiva che ci ha dato Dio, ma i peccati, le scelte egoistiche, i tornaconti, gli attaccamenti, i vizi, i desideri, cioè tutto ciò che non è gradito a Lui;
- fare una continua battaglia contro noi stessi e lottare contro tutte queste cose, dalla più insignificante alla più importante, e non contro una sola di esse. Si tratta di entrare in una ‘dinamica mortificatoria’ di tutti gli istinti, le passioni, i desideri, le tendenze, i vizi. Fare questo lavoro continuo è gradito a Dio che in questo lavorio sta con noi e lavora con noi perché in questo modo il nostro corpo, la nostra anima e il nostro spirito dà gloria a Dio come dice San Paolo. Allora sì che lo sentiremo vicino e non diremo più che non lo sentiamo o che lo sentiamo lontano.
Quindi, per raggiungere la perfezione cristiana, il combattimento spirituale contro noi stessi è durissimo ma Lorenzo Scupoli ci dice che per vincere questa battaglia spirituale abbiamo quattro armi ‘sicurissime e necessarissime’: la diffidenza di noi stessi, la confidenza in Dio, l’esercizio e l’orazione che saranno oggetto delle catechesi successive.
03. La diffidenza di noi stessi
La diffidenza di noi stessi è il primo dei quattro percorsi da intraprendere per arrivare al dominio dei sensi.
L’Autore ci dice che la diffidenza di noi stessi deve essere vista in senso positivo e sottintende la conoscenza vera di noi stessi che rende possibile il permanere in un ‘orizzonte sempre stabile’ nel quale oggettivamente riconosciamo che siamo fragili, vediamo le nostre pecche, le nostre mancanze, le nostre debolezze.
Ci fa oltrepassare l’orizzonte della stabilità e la conoscenza vera di noi stessi, la presunzione cioè il presumere di essere qualcuno, di essere qualcosa di più di ciò che siamo perdendo di vista il vero modo di essere di noi stessi che non significa né esaltarsi e credere di essere chissà chi né sminuirci e credere di essere meno di ciò che si è.
Il leggersi in modo oggettivo è possibile solo grazie allo Spirito Santo che è l’unico che può mostrarci la verità su noi stessi.
Dobbiamo anche essere coscienti che tutto ciò che c’è di buono in noi viene da Dio perché noi non siamo buoni ab origine ma siamo contaminati, la nostra natura è corrotta fin dall’inizio. Nasciamo con il peccato originale cioè con la tendenza al peccato che ha origine dal peccato originale. Il Battesimo ci libera dal peccato originale ma non dalla concupiscenza, cioè dalla predisposizione a peccare, dall’apertura al male.
Per arrivare al dominio di noi stessi, quindi, dobbiamo lottare contro la concupiscenza della carne, degli occhi e dei sensi. Se non intraprenderemo la via della lotta al peccato soccomberemo perché l’inganno del peccato è credere che soddisfare un certo desiderio ci farà stare bene per accorgerci poi che nel momento in cui realizziamo quel desiderio siamo infelici. Il peccato inoltre non deve essere considerato solo come una cosa negativa, ma ha anche un’accezione positiva perché ci aiuta a conoscerci, ridimensionarci, e riposizionarci nella direzione giusta che invece avevamo perso e che non avremmo visto se non avessimo peccato.
La lotta contro la concupiscenza e poi il processo di liberazione però possono iniziare solo se abbattiamo il nostro ego e soprattutto se riconosciamo e siamo coscienti che senza Dio non possiamo fare nulla, che siamo polvere e polvere ritorneremo.
La diffidenza di noi stessi è un dono di Dio che va richiesto. Quando Gesù dice “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi sé stesso”, ‘rinneghi sé stesso’ significa avere piena diffidenza di sé stessi, relativizzarsi, cioè abbandonare tutto ciò che è legato al nostro ego.
La presunzione fa molti danni e viene smentita dalle opere che non sono di valore e il presuntuoso, per non ammettere la sconfitta, scappa. Così spesso accade quando si perdono delle amicizie: quando l’amico si rende conto di non riuscire a stare al centro dell’attenzione con l’altro perché vorrebbe dominarlo e fargli vedere che è superiore e non ci riesce, allora sparisce.
La diffidenza di sé può essere raggiunta con la preghiera e la richiesta esplicita a Dio nonché con l’umiltà. La diffidenza di sé stessi si fonda nell’umiltà vera. Il vero umile è colui che lavora in silenzio e se gli fanno delle critiche sta zitto, non colui che si mette da una parte e non fa nulla per non mettersi in mostra e che in realtà è un egoista.
Anche l’umiltà è un dono di Dio e da chiedere a Dio che ce la concederà come tutto ciò che a Lui piace ed è gradito. Quando non otteniamo qualcosa da Dio è perché la cosa che chiediamo non è secondo la sua volontà, è una cosa che non è per il nostro bene magari perché non ci aiuta a crescere e noi non lo capiamo. Le motivazioni e i perché ci sono sempre, non vengono svelati ai più ma un giorno saranno svelati.
Non possiamo dire che non riusciamo a combattere la tendenza al peccato, il vizio, le inclinazioni al male perché è qualcosa di più forte di noi. Non siamo in grado di opporre la minima resistenza perché in realtà non abbiamo mai provato a farlo, perché non abbiamo mai cercato di lavorare su noi stessi.
Il demonio non ci fa mai vedere una cosa come negativa altrimenti non la faremmo, ce la fa vedere come qualcosa di giusto per noi e conforme alla volontà di Dio e noi cadiamo nell’inganno. Per comprendere che è un inganno sono necessari sensibilità, fiuto, discernimento, capacità di conoscere il modus operandi del maligno ma se abbiamo la conoscenza vera di noi stessi capiremo che se anche ciò che ci propone sembra positivo in realtà non lo è, capiremo che se anche ci farà vedere il bene in una situazione dove magari c’è una necessità vera, nascosto dietro il bene c’è il male.
Per abbassare il nostro livello di egolatria e farci rendere conto di chi siamo veramente, Dio permette che noi cadiamo. I superbi e i presuntuosi capiranno chi sono nel momento in cui cadono e solo cadendo si ravvederanno, finché non cadranno si sentiranno sempre qualcuno.
Dio permette che noi cadiamo anche dal punto di vista spirituale. Nel corso del cammino di fede mentre siamo tutti infervorati nella preghiera rasentando persino il misticismo, ad un certo momento il fervore si spegne, non sentiamo più niente, entriamo in crisi e diciamo che Dio ci ha abbandonato.
Il fervore si spegne perché al centro non ci avevamo messo il Signore ma noi stessi. Dio utilizza questa modalità per fare in modo che noi continuiamo a cercarlo e per vedere se il nostro amore per Lui è autentico cioè per vedere se stiamo cercando Lui o i suoi doni perché noi spesso non cerchiamo Dio ma i suoi benefici. Noi, invece, dobbiamo pregare perché desideriamo incontrare l’Assoluto, l’Incommensurabile, non perché ‘sentiamo’ qualcosa.
Citando e spiegando infine le espressioni bibliche per indicare la mortificazione, l’Autore ci dice che il presupposto della preghiera è quello di far morire l’uomo vecchio rinunciando a sé stessi attraverso il distacco dai beni esterni, la crocifissione della carne e delle sue cupidigie perché chi non domina il corpo e le sue inclinazioni è uno schiavo, è schiavo di sé stesso, non è libero.
Per vivere la vita di Cristo, dobbiamo combattere per dominare il corpo e le nostre inclinazioni e finché non intraprendiamo questo processo, se la nostra vita non è in consonanza con la preghiera (porto rancore, tradisco, ecc.), è inutile pregare e andare a Messa. Dobbiamo sottomettere le nostre inclinazioni prima di tutto alla nostra volontà perché se viceversa le inclinazioni dominano sulla nostra volontà significa che non abbiamo più la facoltà di volere, che non abbiamo più il controllo di noi stessi. Solo dopo aver sottomesso le nostre inclinazioni alla nostra volontà possiamo offrirle a Dio perché sono il frutto di questo lavoro che dimostra che sappiamo dominare le inclinazioni e gestirle.
Possiamo dunque arrivare a vivere una vita libera attraverso la mortificazione che è un mezzo per vivere una vita superiore e ha lo scopo e il fine ultimo dell’unione con Dio al quale possiamo arrivare dopo aver dominato la nostra volontà. Non può dire di aver incontrato Dio chi non ha fatto questo processo di dominio della volontà passando nel crogiuolo della mortificazione e quindi avendo il pieno possesso di sé. Chi crede di aver incontrato Dio ed è schiavo di sé stesso è un illuso.
Per approfondimenti:
Sir 3, 20; Pr 3, 34; Sal 25, 14; Mt 11, 25; Lc 1,52; Sof 2,3; Mt 5,3; Gv 9, 39
04. La confidenza in Dio
Dopo la diffidenza di noi stessi, la seconda arma per vincere la battaglia spirituale è la totale confidenza in Dio. Non è sufficiente diffidare di noi stessi, ma bisogna confidare totalmente in Dio.
L’Autore ci dice che dopo aver preso coscienza delle nostre fragilità e della nostra piccolezza (pecche, mancanze, debolezze), arrivati cioè alla conoscenza vera di noi stessi, è necessario aprirsi a Colui che può dare sostegno alla diffidenza in noi stessi.
Sottolinea che la confidenza in Dio deve essere totale perché è impensabile fidarci di Dio fino a un certo punto e perché significherebbe dubitare. La confidenza in Dio o c’è o non c’è.
Se non abbiamo confidenza totale in Dio o non ce l’abbiamo secondo le caratteristiche che saranno illustrate nella catechesi, dobbiamo iniziare a domandarci se abbiamo confidenza in Dio, che tipo di confidenza abbiamo in Dio e quando nella nostra vita, in quali particolari momenti, è entrata in crisi.
La confidenza in Dio si può raggiungere in quattro modi:
- Domandandola a Dio.
Chiediamo tante cose al Signore (la salute, che le cose vadano bene) ma non la più importante e la più semplice: “Signore Gesù io ho molti dubbi, molto spesso passo per questa strada dei dubbi, donami una completa confidenza in Te”.
2. Riuscendo a capire e vedere con l’occhio della fede l’onnipotenza e la sapienza infinita di Dio al quale niente è impossibile né difficile e il quale, essendo la sua bontà smisurata, con immenso amore non aspetta altro che darci tutto ciò che ci occorre per la vita spirituale e la vittoria su noi stessi purché ci gettiamo con confidenza nelle sue braccia.
Noi non riusciamo ad ottenere ciò che chiediamo perché non facciamo questo, perché non preghiamo con la certezza di ottenere quello che stiamo chiedendo, perché non chiediamo e non preghiamo con la totale confidenza in Lui e con la certezza che il Padre non può negarci una cosa che ci sta a cuore se è oggettivamente buona perché Lui ci ama e vuole solo il nostro bene.
Se noi gli chiediamo la confidenza assoluta in Lui non può che gioire perché la Sua gioia è quella di poter entrare nel nostro cuore (‘Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me’, Apocalisse 3,14-22).
Entrare in confidenza totale con Dio comporta approfondire il nostro rapporto interpersonale con Lui che diventa la base dei rapporti con gli altri perché se non confidiamo in Lui non confideremo negli altri perché non sappiamo cosa significa confidare.
3. Facendo riferimento alla Sacra Scrittura, nella quale sono tanti gli episodi in cui si racconta che i protagonisti hanno confidato nel Signore, e ai Salmi.
4. Pensando alle nostre debolezze prima di fare e affrontare qualcosa perché fare questo ci aiuta ad aprirci alla confidenza in Dio.
Prendere coscienza delle nostre fragilità, della nostra piccolezza (pecche, mancanze, debolezze) e che ci basta poco per cadere, ci farà capire che sarebbe insensato confidare in noi stessi.
Gli orgogliosi e i superbi che continuano a confidare in sé stessi malgrado cadano frequentemente nei loro peccati toccando quindi con mano la propria fragilità e passando da una sconfitta all’altra, lo fanno perché credono di essere qualcosa o qualcuno e non ammettono di aver bisogno di Dio: hanno il cuore chiuso alla confidenza in Dio.
Bisogna inoltre porre attenzione al fatto che c’è la possibilità che noi possiamo credere di confidare in Dio e di diffidare di noi stessi ma in realtà non è così. Se infatti stiamo veramente diffidando di noi stessi è evidente dal nostro modo di essere, dai nostri comportamenti, dal modo di relazionarci con gli altri.
E pertanto, prima di iniziare a fare qualsiasi qualcosa, è bene chiedersi: “Ma io chi sono che ho voglia di far questo? Quali qualità, quali caratteristiche ho? Su quali basi io posso contare su me stesso? Quali risorse, quali capacità ho? Quante volte sono caduto proprio servendomi di quelle qualità che io sto menzionando e mettendo in evidenza? Sono intelligente? Cosa ne ho fatto della mia intelligenza? Quali sono i frutti di questa intelligenza?
E’ bene poi verificare e approfondire, senza essere presuntuosi, anche se abbiamo altre possibili qualità (pars costruens) e poi fare il contrario (pars destruens).
Mettendo sui piatti della bilancia le due parti, quello più pesante sarà quello della pars destruens ossia quella distruttiva cioè quella che ci renderà consapevoli delle qualità che presumevamo di avere e che invece non corrispondono alla realtà.
Se non arriviamo a diffidare di noi stessi e a confidare totalmente in Dio, i frutti della nostra vita saranno sempre deplorevoli e distruttivi.
Come possiamo capire se abbiamo raggiunto la diffidenza di noi stessi e se agiamo con la confidenza in Dio?
Confidando in noi stessi cadiamo. Cadiamo perché ci stacchiamo dalla fonte della potenza di Dio e crediamo di trovare in noi stessi la potenza per andare avanti, di potercela fare da soli senza rivolgerci a Dio, senza la preghiera.
Confidiamo in noi stessi e poco in Dio se nel momento in cui cadiamo ci rattristiamo, non pensiamo di poter cambiare, crediamo e affermiamo di essere veramente pentiti e di aver capito l’errore e ciò è ancora più vero quando la tristezza e la disperazione di poter cambiare sono ad un grado elevato.
Credere e dire “Io sono caduto, io sono rattristato, io non ci sto al fatto di essere caduto perché io non posso cadere”, non è altro che autoesaltazione e presunzione di sé stessi. Non abbiamo capito nulla, perché ciò che è caduto è l’immagine di noi stessi, è il piedistallo sul quale ci siamo posti: non ammettiamo di aver peccato, diciamo di essere caduti giustificando la caduta come un errore (uno sbaglio) che non è un errore ma un peccato.
La differenza tra errore e peccato è importante perché l’errore non è imputabile in quanto presuppone che non ci si renda conto di ciò che si sta facendo, si sbaglia e basta; il peccato, invece, è imputabile. Per commettere peccato ci vuole piena avvertenza (rendersi conto delle azioni che si stanno per compiere e avere consapevolezza della bontà o della malizia dell’azione), deliberato consenso, materia grave.
Solo diffidando di noi stessi e confidando in Dio possiamo riconoscere di essere caduti e più è elevato il grado di diffidenza di noi stessi più confideremo in Dio e comprenderemo perché abbiamo peccato e offeso Dio.
Chi confida veramente in Dio non cade, non pecca, perché se la sua vita è saldamente ancorata a Dio non può peccare.
Una volta compresa la causa della caduta, è necessario lottare contro di essa per liberarsene e non perdere tempo a rammaricarsi facendo la vittima. Non bisogna mai smettere di combattere perché Dio permette che noi pecchiamo per correggerci dalla superbia e dalla presunzione di noi stessi per farci capire che dobbiamo confidare in Lui e non in noi stessi.
La superbia, la presunzione, l’orgoglio, la vanagloria, la pusillanimità, non ci permettono di incontrare Dio. Il superbo, il presuntuoso, l’orgoglioso, il vanaglorioso, il pusillanime non si può accostare a Dio, non incontrerà mai Dio perché Dio è umile.
La pusillanimità consiste nel confidare eccessivamente in noi stessi e nelle nostre forze illudendoci di non farlo, è un inganno che noi stessi creiamo perché ci aiuta a giustificare la mancanza di confidenza in Dio.
L’umile, invece, che è consapevole di non potercela fare da solo perché non presume di essere perfetto ed è cosciente delle sue fragilità, non si nasconde dietro la pusillanimità, non lavora sulla presunzione di sé ma lavora sulle sue miserie e lavorando sulle sue miserie può costruire qualcosa di più grande. Sulla base di questa umiltà si costruisce la santità.
L’Autore presenta, infine, l’«Atto di abbandono a Gesù», preghiera composta da Don Dolindo Ruotolo sacerdote ed esorcista tenuto in grande considerazione da Padre Pio perché era un uomo veramente pieno di Dio.
Il motivo conduttore della preghiera è “Pensaci Tu” che sottintende un vero atto di completo abbandono a Dio che a noi manca. Se non c’è questo completo abbandono in Dio non possiamo risolvere nulla. La confidenza totale in Dio è “l’arma, la chiave di volta per cominciare a fare spazio dentro di noi per togliere la presunzione e metterci la confidenza in Lui”.
ATTO DI ABBANDONO A GESU’
di Don Dolindo Ruotolo
Gesù alle anime:
Perché vi confondete agitandovi? Lasciate a me la cura delle vostre cose e tutto si calmerà. Vi dico in verità che ogni atto di vero, cieco, completo abbandono in me, produce l’effetto che desiderate e risolve le situazioni spinose.
Abbandonarsi a me non significa arrovellarsi, sconvolgersi e disperarsi, volgendo poi a me una preghiera agitata perché io segua voi, e cambiare così l’agitazione in preghiera. Abbandonarsi significa chiudere placidamente gli occhi dell’anima, stornare il pensiero dalla tribolazione, e rimettersi a me perché io solo vi faccia trovare, come bimbi addormentati nelle braccia materne, nell’altra riva.
Quello che vi sconvolge e vi fa un male immenso è il vostro ragionamento, il vostro pensiero, il vostro assillo ed il volere ad ogni costo provvedere voi a ciò che vi affligge.
Quante cose io opero quando l’anima, tanto nelle sue necessità spirituali quanto in quelle materiali, si volge a me, mi guarda, e dicendomi: “pensaci tu”, chiude gli occhi e riposa! Avete poche grazie quando vi assillate per produrle, ne avete moltissime quando la preghiera è affidamento pieno a me. Voi nel dolore pregate perché io operi, ma perché io operi come voi credete. Non vi rivolgete a me, ma volete voi che io mi adatti alle vostre idee; non siete infermi che domandano al medico la cura, ma, che gliela suggeriscono. Non fate così, ma pregate come vi ho insegnato nel Pater: “Sia santificato il tuo nome”, cioè sii glorificato in questa mia necessità; “venga il tuo regno”, cioè tutto concorra al tuo regno in noi e nel mondo; “sia fatta la tua volontà”, ossia PENSACI TU.
Se mi dite davvero: “sia fatta la tua volontà”, che è lo stesso che dire: “pensaci tu”, io intervengo con tutta la mia onnipotenza, e risolvo le situazioni più chiuse. Ecco, tu vedi che il malanno incalza invece di decadere? Non ti agitare, chiudi gli occhi e dimmi con fiducia: “Sia fatta la tua volontà, pensaci tu”. Ti dico che io ci penso, che intervengo come medico, e compio anche un miracolo quando occorre. Tu vedi che l’infermo peggiora? Non ti sconvolgere, ma chiudi gli occhi e di’: “Pensaci tu”. Ti dico che io ci penso.
E’ contro l’abbandono la preoccupazione, l’agitazione e il voler pensare alle conseguenze di un fatto. E’ come la confusione che portano i fanciulli, che pretendono che la mamma pensi alle loro necessità, e vogliono pensarci essi, intralciando con le loro idee e le loro fisime infantili il suo lavoro.
Ci penso solo quando chiudete gli occhi. Voi siete insonni, voi volete tutto valutare, tutto scrutare, confidando solo negli uomini. Voi siete insonni, voi volete tutto valutare, tutto scrutare, a tutto pensare, e vi abbandonate così alle forze umane, o peggio agli uomini, confidando nel loro intervento. E’ questo che intralcia le mie parole e le mie vedute. Oh, come io desidero da voi questo abbandono per beneficarvi, e come mi accoro nel vedervi agitati! Satana tende proprio a questo: ad agitarvi per sottrarvi alla mia azione e gettarvi in preda delle iniziative umane. Confidate perciò in me solo, riposate in me, abbandonatevi a me in tutto. Io faccio miracoli in proporzione del pieno abbandono in me, e del nessuno pensiero di voi; io spargo tesori di grazie quando voi siete nella piena povertà! Se avete vostre risorse, anche in poco, o, se le cercate, siete nel campo naturale, e seguite quindi il percorso naturale delle cose, che è spesso intralciato da Satana. Nessun ragionatore o ponderatore ha fatto miracoli, neppure fra i Santi.
Opera divinamente chi si abbandona a Dio.
Quando vedi che le cose si complicano, di’ con gli occhi dell’anima chiusi: “Gesù, pensaci tu”.
E distraiti, perché la tua mente è acuta e per te è difficile vedere il male. Confida in me spesso, distraendoti da te stesso. Fa’ così per tutte le tue necessità. Fate così tutti, e vedrete grandi, continui e silenziosi miracoli. Ve lo giuro per il mio amore. Io ci penserò ve lo assicuro. Pregate sempre con questa disposizione di abbandono, e ne avrete grande pace e grande frutto, anche quando io vi faccio la grazia dell’immolazione di riparazione e di amore che impone la sofferenza. Ti sembra impossibile? Chiudi gli occhi e di’ con tutta l’anima: “Gesù pensaci tu”. Non temere ci penso io. E tu benedirai il mio nome umiliandoti. Mille preghiere non valgono un atto solo di fiducioso abbandono: ricordatelo bene. Non c’è novena più efficace di questa:
O Gesù m’abbandono in Te, pensaci tu!
05. L’esercizio (e l’orazione)
L’esercizio (e l’orazione), dopo la diffidenza di noi stessi e la confidenza in Dio, sono le armi ‘sicurissime e necessarissime’ che Lorenzo Scupoli dice che abbiamo per vincere la battaglia spirituale per raggiungere la perfezione cristiana.
In questa catechesi l’Autore illustra in che modo condurre la lotta contro la concupiscenza della carne, degli occhi e dei sensi per arrivare al dominio di noi stessi con l’esercizio.
Il primo esercizio da fare è l’esercizio dell’intelletto inteso come atto riflessivo attraverso cui l’uomo diviene consapevole delle sue percezioni e contrapposto sia alla volontà (cioè alla facoltà e alla capacità di volere, di scegliere e porre in essere un comportamento per il raggiungimento di un determinato fine), sia alla sensibilità (cioè alla capacità, all’attitudine a ricevere impressioni attraverso i sensi).
L’esercizio dell’intelletto è la ricerca della verità in quanto è l’intelletto che si apre alla verità e ce la fa conoscere.
Oggetto dell’intelletto è la conoscenza del vero mentre l’ignoranza (cioè il non conoscere, il non sapere) oscura l’intelletto e non consente di esercitarlo.
L’intelletto, quindi, deve essere preservato dall’ignoranza e va esercitato, nutrito e coltivato con lo studio altrimenti si atrofizza e siccome è un dono di Dio, è uno dei doni dello Spirito Santo, se non lo esercitiamo commettiamo una grave mancanza: l’Autore osa dire che non esercitarlo è un peccato.
Ne consegue che nessuno di noi può rimanere ignorante perché se dobbiamo dominare le passioni è necessario conoscere il modo per dominarle.
Lorenzo Scupoli afferma che la prima cosa da fare per dominare le passioni è l’orazione, ossia pregare e invocare lo Spirito Santo senza il quale non ci riusciremmo perché la sola volontà di dominare le passioni per non cadere in tentazione non basta.
Dopo aver invocato lo Spirito Santo e aver fatto l’orazione, è necessario consultare il padre spirituale attraverso il quale lo Spirito Santo ci parlerà e al quale dobbiamo dire quali difficoltà spirituali abbiamo (passioni, tentazioni, attrazioni, e così via).
Per capire se una persona, una situazione, un avvenimento o un problema è buono o cattivo ed evitare di sbagliare o incorrere in delusioni o essere ingannati, dobbiamo sempre invocare e valutare tutto alla luce dello Spirito Santo.
Il nodo cruciale del momento in cui dobbiamo prendere una decisione e fare la scelta migliore per la nostra vita, è che dobbiamo essere capaci di leggere (di intus legere cioè saper leggere dentro, in profondità) nella realtà non quello che appare ma quello che è in sé.
Se ci basiamo su ciò che appare [fenòmeno dal greco ϕαινόμενον (fainòmenon) che significa mostrarsi, apparire], se ci basiamo su ciò che è conoscibile attraverso i sensi e che quindi può non corrispondere alla realtà oggettiva, sbagliamo. Dobbiamo arrivare a comprendere ciò che è in sé [noùmeno dal greco (τὸ) νοούμενον (nooúmenon) che significa ciò che è concepito dall’intelletto], dobbiamo arrivare cioè all’essenza della realtà e se non arriviamo all’essenza di ciò che è in sé sbagliamo.
Non si tratta, inoltre, solo di dominare le passioni ma di andare oltre, di andare in alto. Ciò che ci rende simili a Dio non è pregare molto ma perdonare ed essere aperti al nemico. Il nostro modo di pensare deve entrare in conflitto con il modo di operare (modus operandi) della maggioranza, non deve conformarsi al pensiero dominante che è quello del mondo, non deve adeguarsi al sentire comune per non sentirci in minoranza.
Possiamo però non conformarci al pensiero dominante solo se il fondamento essenziale della nostra natura, del nostro modo di essere è forte, convinto, maturo, diversamente ci faremo influenzare dal pensiero comune. “Se il mondo ci disprezza in quanto cristiani noi dovremmo esultare non deprimerci. Se vogliamo raggiungere la libertà dello spirito dobbiamo percorrere questa strada non quell’altra”.
Non possiamo dominare le cose del mondo e le nostre passioni se non conosciamo le nostre dinamiche e per fare questo dobbiamo imparare che l’umile conoscenza di noi stessi deve essere messa al primo posto.
In Grecia, sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, c’era scritto ‘γνῶϑι σεαυτόν (gnōthi seautón)’ che significa ‘Conosci te stesso’. In questo modo, l’oracolo di Apollo rivolgeva all’uomo di allora (e di sempre) l’invito a indagare dentro di sé per scoprire che l’essenza della nostra vita è dentro di noi, non al di fuori di noi, esortava cioè gli uomini al riconoscimento della propria condizione e limitatezza. Socrate (filosofo greco, 470-399 a.C.) ne fece la sua massima preferita interpretandola come un invito a considerare i limiti della conoscenza umana prima di procedere nella via del sapere e quindi della virtù.
Secondo l’Autore, la più grande scienza è la conoscenza di sé stessi, ma noi non ci conosciamo e non vogliamo conoscerci e anche quando potremmo fermarci a riflettere su noi stessi non lo facciamo perché non vogliamo incontrare noi stessi, perché abbiamo paura di guardarci dentro dove abbiamo cose irrisolte, peccati, sensazioni, emozioni, tantissime cose non decodificate. Se non decodifichiamo il nostro vissuto, le nostre esperienze, queste ci schiacciano, ci opprimono, ci disorientano e non ci fanno avere il dominio di noi stessi perché non siamo in grado di gestirle.
Scupoli afferma che: “il vincere e mortificare i propri appetiti, per piccoli che siano, merita maggior lode che l’espugnare molte città (cfr. Pro 16,32: “Il paziente val più di un eroe, chi domina sé stesso val più di chi conquista una città”)”. Ciò significa che è più forte uno che sa dominare le piccole cose piuttosto che uno che a capo di un esercito espugna una città.
Ma noi siamo capaci di dire no, di riuscire a vincere e ad opporre resistenza alle nostre inclinazioni, anche le più trascurabili? No, perché non abbiamo mai provato a lavorare su noi stessi.
Il motivo per il quale non discerniamo correttamente tutte le cose che sono state esposte finora e molte altre, è che nel momento in cui ci troviamo davanti una persona, dobbiamo gestire una situazione o fare una cosa, dobbiamo realizzare un progetto o raggiungere un obiettivo, reagiamo istintivamente ed epidermicamente facendoci guidare dall’emotività, dai sentimenti di amore o di odio e perciò, senza fare discernimento, diciamo che una persona è bella o brutta, che la situazione ci piace o non ci piace, che fare una cosa, realizzare un progetto o raggiungere un obiettivo ci va o non ci va.
Non usiamo l’intelletto e sbagliamo. Sbagliamo perché ci facciamo guidare dall’istinto, dalle sensazioni che oscurano l’intelletto che perciò non può giudicare correttamente. Prima vediamo, ci basiamo cioè su ciò che appare immediatamente (fenòmeno) e poi studiamo.
Per comprendere invece ciò che è in sé (noùmeno) cioè l’essenza della realtà, dobbiamo prima studiare, riflettere, constatare, verificare, valutare, dobbiamo saper leggere dentro, in profondità (intus legere).
L’intelletto deve essere libero come anche la volontà, non può e non deve essere condizionato da ciò che appare immediatamente, dalle passioni interiori che ci pervadono le quali ci fanno dire che una cosa è buona o cattiva in base al trasporto emotivo o passionale che abbiamo verso quella realtà.
La realtà, quindi, in fase di discernimento, va affrontata intellettualmente non passionalmente altrimenti incorriamo in delusioni e in inganni.
L’uso dell’intelletto ci consente di conoscere il vero e decifrare il male che è nascosto sotto il falso piacere e il bene che è nascosto sotto l’apparenza del male.
Quando decidiamo di volere o non volere una cosa o una persona è la volontà che ci fa scegliere e l’intelletto, oscurato dalla volontà che gli ha imposto la scelta, non la può conoscere bene.
A questo punto si innesca il conflitto tra volontà e intelletto perché abbiamo preso una decisione in base alla volontà senza esercitare l’intelletto.
Intelletto e volontà non si incontrano, uno va da una parte e l’altra da un’altra.
L’intelletto ci mette sull’avviso e insinua il dubbio (attento, forse c’è qualcosa che non va, sei sicuro?) e ci dice che la cosa o la persona non è buona per determinati motivi; la volontà, invece, ci dice che la vogliamo.
Inevitabilmente, a causa del conflitto tra intelletto e volontà, entriamo in crisi perché, da una parte, dando ascolto all’emotività e alla volontà, non vogliamo fare a meno di quella cosa, ma dall’altra capiamo che stiamo facendo una sciocchezza e pur capendolo sopprimiamo l’intelletto e facciamo prevalere la volontà che fa credere all’intelletto che la nostra scelta sia la migliore.
Sostituendo all’intelletto la volontà e quindi la passione o le passioni, non riusciamo più a governare noi stessi perché siamo soggiogati dall’istintualità. Da ciò scaturiscono i fallimenti e le delusioni; non siamo felici, realizzati e soddisfatti perché viviamo la nostra vita da spettatori e non da protagonisti, da spettatori di scelte che non siamo noi a fare in prima persona ma che sono fatte da altro cioè dalla volontà e non dall’intelletto.
La verità su una cosa ce la può dare solo l’intelletto, non ce la dà la volontà, perché la ricerca della verità è legata all’intelletto che si apre alla verità e ce la fa conoscere.
Per non commettere errori è necessario, pertanto, non dare priorità alla volontà cioè al trasporto emotivo, ma usare l’intelletto e consultare il padre spirituale che in molte occasioni, dicendoci che stiamo sbagliando, funge da intelletto. Di fronte a un problema, dobbiamo pregare e invocare lo Spirito Santo, eliminare il trasporto emotivo, esaminare tutto alla luce dell’intelletto, poi della grazia e del padre spirituale.
Un altro elemento che inficia l’esercizio dell’intelletto è la curiosità. Scupoli dice che se nutriamo l’intelletto di curiosità arriveremo a perdere il dominio dell’intelletto perché l’intelletto farà sue molteplici notizie, punti di vista e considerazioni che condizioneranno l’intelletto e demoliranno la capacità di fare il lavoro di discernimento. In sostanza la curiosità ci fa immagazzinare tutta una serie di informazioni che influenzano il nostro pensiero cioè l’intelletto a tal punto da narcotizzarci e renderci conformi al pensiero dominante (massificazione) che, come abbiamo visto, ci toglie la capacità di approcciare la realtà con senso critico, in modo oggettivo, per comprenderne l’essenza, ossia ciò che è in sé.
L’Autore conclude dicendo che tutto quanto esposto nella catechesi va applicato nella nostra vita domandandoci: “In questa situazione chi ha deciso la mia volontà o il mio intelletto? Ho fatto il discernimento su questa cosa? Ho posto a discernimento questa realtà? Devo intraprendere questa cosa, come l’affronterò? Come gestirò tutto questo? Lo faccio perché mi va, perché mi attira perché mi sento che è così?
Proverbi 16
1All’uomo appartengono i progetti della mente, ma dal Signore viene la risposta.
2 Tutte le vie dell’uomo sembrano pure ai suoi occhi, ma chi scruta gli spiriti è il Signore.
3 Affida al Signore la tua attività e i tuoi progetti riusciranno.
4 Il Signore ha fatto tutto per un fine, anche l’empio per il giorno della sventura.
5 E’ un abominio per il Signore ogni cuore superbo, certamente non resterà impunito.
6 Con la bontà e la fedeltà si espia la colpa, con il timore del Signore si evita il male.
7 Quando il Signore si compiace della condotta di un uomo, riconcilia con lui anche i suoi nemici.
8 Poco con onestà è meglio di molte rendite senza giustizia.
9 La mente dell’uomo pensa molto alla sua via, ma il Signore dirige i suoi passi.
10 Un oracolo è sulle labbra del re, in giudizio la sua bocca non sbaglia.
11 La stadera e le bilance giuste appartengono al Signore, sono opera sua tutti i pesi del sacchetto.
12 E’ in abominio ai re commettere un’azione iniqua, poiché il trono si consolida con la giustizia.
13 Delle labbra giuste si compiace il re e ama chi parla con rettitudine.
14 L’ira del re è messaggera di morte, ma l’uomo saggio la placherà.
15 Nello splendore del volto del re è la vita, il suo favore è come nube di primavera.
16 E’ molto meglio possedere la sapienza che l’oro, il possesso dell’intelligenza è preferibile all’argento.
17 La strada degli uomini retti è evitare il male, conserva la vita chi controlla la sua via.
18 Prima della rovina viene l’orgoglio e prima della caduta lo spirito altero.
19 E’ meglio abbassarsi con gli umili che spartire la preda con i superbi.
20 Chi è prudente nella parola troverà il bene e chi confida nel Signore è beato.
21 Sarà chiamato intelligente chi è saggio di mente; il linguaggio dolce aumenta la dottrina.
22 Fonte di vita è la prudenza per chi la possiede, castigo degli stolti è la stoltezza.
23 Una mente saggia rende prudente la bocca e sulle sue labbra aumenta la dottrina.
24 Favo di miele sono le parole gentili, dolcezza per l’anima e refrigerio per il corpo.
25 C’è una via che pare diritta a qualcuno, ma sbocca in sentieri di morte.
26 L’appetito del lavoratore lavora per lui, perché la sua bocca lo stimola.
27 L’uomo perverso produce la sciagura, sulle sue labbra c’è come un fuoco ardente.
28 L’uomo ambiguo provoca litigi, chi calunnia divide gli amici.
29 L’uomo violento seduce il prossimo e lo spinge per una via non buona.
30 Chi socchiude gli occhi medita inganni, chi stringe le labbra ha già commesso il male.
31 Corona magnifica è la canizie, ed essa si trova sulla via della giustizia.
32 Il paziente val più di un eroe, chi domina se stesso val più di chi conquista una città.
33 Nel grembo si getta la sorte, ma la decisione dipende tutta dal Signore.
06. Il pensiero quale origine del peccato. La lettura impura della cosa in sé
Nelle catechesi precedenti abbiamo visto che per raggiungere la perfezione cristiana è necessario avere il dominio di noi stessi e quindi il dominio delle passioni, dell’intelletto, della volontà; dobbiamo cioè essere in grado di gestire congiuntamente come una unità indissolubile il corpo, l’anima e lo spirito che sono i tre elementi costitutivi dell’uomo che sono strettamente collegati e si influenzano a vicenda.
Oggetto di questa catechesi è il pensiero quale origine e inizio del peccato.
L’Autore fa un’analisi di cosa è il pensiero [in greco logismos (λογισμός)]
I principali elementi sono i seguenti:
- il pensiero non viene dall’esterno perché per concepire, elaborare, immaginare qualcosa ci vuole un essere pensante che formula il pensiero. Ne consegue che la fonte dei nostri pensieri, i responsabili di ciò che pensiamo siamo noi in prima persona;
- la facoltà di pensare e il pensare non sono un male. I pensieri sono puri fino al momento in cui non si aggiunge ad essi qualche pulsione che spinge a fare il male. Puro vuol dire non contaminato da niente che viene da fuori; è puro ciò a cui non si aggiunge nient’altro;
- non si tratta quindi di un semplice pensiero ma di un pensiero, di un desiderio impuro, cattivo che nasce quando alle immagini della fantasia si aggiunge l’impulso (la suggestione) di realizzare qualcosa di cattivo. La fantasia di per sé non è peccato, è tollerabile che una fantasia possa venire in mente, ma non dobbiamo lasciarci trasportare da essa, dobbiamo essere in grado di gestirla e quindi essere padroni dei nostri pensieri, dei nostri desideri e delle nostre fantasie. La nostra responsabilità, perciò, sta nella lettura impura della cosa in sé che siamo noi a fare: non viene dall’esterno né da nessun altro;
- in sé stessi gli impulsi al male, i pensieri cattivi, i desideri passionali non sono un vero male e non appartengono al nostro modo naturale di pensare: da noi, infatti, non può uscire nulla di cattivo perché Dio ci ha creato puri, giusti e santi. Finché gli impulsi al male rimangono al di fuori di noi non sono peccato. Diventano peccato quando vedendoli li accettiamo consapevolmente e liberamente, quando diamo loro il nostro consenso e diamo seguito a quell’impulso. La fonte del male è tutto ciò che noi pensiamo, produciamo e mettiamo in atto dando il nostro consenso al male con la nostra libera volontà. Gesù ha detto: “Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l’uomo” Mt, 11. Dio non ci preserva dalle tentazioni di Satana perché gli ha dato il permesso di tentarci, ma noi come rispondiamo alle tentazioni? Le combattiamo? Tentare non vuol dire peccare ma se noi siamo in grado di dominare noi stessi non cederemo alla tentazione e quindi non cadremo nel peccato. Se cediamo alle tentazioni la colpa non è del tentatore o di qualcun altro ma solo nostra; siamo noi i diretti responsabili del nostro peccato (di pensiero o fisico non fa differenza);
- dobbiamo quindi chiederci: Come gestiamo le passioni, i desideri, le attrazioni, le tentazioni che si affacciano nella nostra mente? Se le passioni, i desideri, le attrazioni, le tentazioni affollano la nostra mente, chi gli ha permesso di entrarci? Se non siamo in grado di gestire la nostra mente dominando i nostri pensieri con l’intelletto e la volontà vivremo e saremo sempre schiavi dei nostri pensieri, desideri, impulsi, passioni, emozioni, attrazioni, vizi perché non abbiamo mai intrapreso la lotta contro tutte queste cose, non abbiamo mai iniziato la battaglia, il combattimento spirituale contro noi stessi per gestirli. Non siamo in grado di dire di no a niente e a nessuno e quindi il pensiero entra facilmente dentro di noi. La passione diventa passione attraverso questo processo: il vedere o il toccare con i sensi che fa nascere il turbamento e accogliere (non rifiutare) il pensiero, poi arriva l’immaginazione, poi il nostro consenso, poi l’attrazione e infine si arriva alla passione. E’ evidente che non abbiamo fatto nulla per gestire queste fasi specialmente nel momento in cui non combattiamo il pensiero quando arriva al dato sensoriale (vedere o toccare) che, di conseguenza, arriva con facilità alla sede deliberativa del consenso che è il nostro cuore;
- oltre a combattere per evitare il peccato è necessario purificare il cuore per raggiungere la pace interiore dell’anima. Anche per conservare lo stato di purezza (l’Autore ci ha detto che Dio ci ha creato puri, giusti e santi), dobbiamo saper gestire i nostri sensi, i nostri pensieri, le nostre attitudini. Solo mettendo in atto il processo di difesa del nostro castello interiore saremo liberi e potremo rispondere alla vocazione alla vita che Dio ci ha dato, all’essere persone. Una persona è tale quando riesce ad arrivare alla conoscenza e al dominio di sé stessa (equilibrio ontologico) voluto da Dio. L’Autore ricorda ancora una volta che siamo noi i responsabili e i gestori dei nostri sensi, che siamo noi che autorizziamo il pensiero (il logismos) ad entrare nel nostro castello interiore e che il pensiero diventa impuro, quindi diventa peccato, dopo che noi gli abbiamo dato il consenso ad entrare e a contaminarci.
L’Autore conclude dicendo che è necessario appurare tre cose: se in passato abbiamo mai messo in atto il processo di difesa del nostro castello interiore, se ora siamo disposti a farlo e soprattutto se abbiamo la volontà di eseguirlo sempre, non per un giorno, perché questo processo deve essere compiuto tutta la vita.
07. Il processo attraverso il quale si arriva al vero peccato
Prima di iniziare la catechesi l’Autore si domanda e ci chiede se stiamo mettendo in atto quanto appreso nel corso delle catechesi fin qui ascoltate. Non si tratta infatti di un percorso di sola conoscenza ma di un cammino di conversione che comporta il voler non pensare cose cattive o di natura impura e dominare le passioni, i desideri, le attrazioni, cioè combattere. Se non c’è questo intento e l’ascolto delle catechesi non ci pesa è meglio non farlo perché più andremo avanti più sarà gravoso in termini di combattimento spirituale.
Nella catechesi numero 6, l’Autore ha detto che il pensiero cattivo unito al nostro libero consenso dà origine al vero peccato. Di per sé, infatti, i pensieri cattivi non hanno nessun significato, ciò che è importante, invece, è riuscire a comprendere se abbiamo acconsentito liberamente o no ai pensieri cattivi. Dobbiamo quindi esaminarli per conoscere il loro contenuto, qual è stato il processo che ci ha portato a pensarli, qual è il grado di consenso che abbiamo dato ad essi.
Il processo attraverso il quale si arriva al vero peccato si svolge attraverso cinque stadi perché cinque sono i gradini attraverso i quali la malizia (cattiveria) entra nel cuore: la suggestione, il colloquio, il combattimento, il consenso, la passione.
- la suggestione
La suggestione o “contatto” è la prima immagine fornita alla mente dalla fantasia, la prima idea, il primo impulso in base al quale abbiamo la possibilità di fare il male, il quale si presenta in una forma piacevole, ma non abbiamo ancora deciso di farlo. È inevitabile avere delle suggestioni e non dobbiamo andare a confessarci e dire “ho avuto pensieri cattivi” (chi lo fa sbaglia) perché in questa fase non è ancora intervenuto il nostro consenso.
- Il colloquio
Se nella fase della suggestione eravamo solo spettatori, nella fase del colloquio c’è un nostro personale coinvolgimento che spesso ci impegna per un’intera giornata. Infatti, dopo aver ricevuto la suggestione, invece discacciarla e di lasciarla andare via, la fermiamo nella nostra mente, cominciamo a pensarci, a valutarla, a rifletterci su e ci entriamo in colloquio meditando cosa fare. Se non decidiamo di dare seguito alla suggestione non pecchiamo ma la colpa di questi colloqui interiori senza senso è che ci fanno perdere tempo ed energia vitale.
- Il combattimento
Si colloca al terzo posto perché il pensiero (la suggestione), dopo un lungo colloquio interiore, entra e si insedia nel cuore e non se ne va facilmente. Più diamo tempo al pensiero di rimanere nella mente e più colloquiamo con lui, più sarà difficile mandarlo via. Dimostreremo di essere una persona [una persona è tale quando riesce ad arrivare alla conoscenza e al dominio di sé stessa (equilibrio ontologico) voluto da Dio] solo se combatteremo e avremo la volontà ferma di resistere, di non acconsentire al peccato e di decidere liberamente di fare il contrario di quanto ci induce a fare la suggestione dopo essersi insediata nel cuore a seguito del colloquio interiore. Come detto all’inizio della catechesi, il combattimento è necessario e chi non vuole lottare è meglio che lasci perdere: dobbiamo combattere tutti i giorni, tutti i momenti, tutti i secondi.
Senza il combattimento spirituale e la volontà è inutile dire che siamo capaci di resistere o di gestire la suggestione perché solo con il combattimento spirituale e la volontà possiamo arrivare alla vera conoscenza di noi stessi e dei ‘dinamismi intrapsichici’ cioè delle dinamiche che avvengono nella nostra psiche [dal greco ψυχή (psyché) la cui etimologia (scienza che studia la storia delle parole, indagandone l’origine e l’evoluzione fonetica, morfologica, semantica) si riconduce all’idea del ‘soffio’, cioè del respiro vitale; presso i Greci designava l’anima in quanto originariamente identificata con quel respiro. Nella psicologia moderna, la psiche è intesa come il complesso delle funzioni e dei processi che danno all’individuo esperienza di sé e del mondo e ne informano il comportamento].
- Il consenso
Il consenso è la punta dell’iceberg di un processo che va a ritroso. Infatti, se dopo aver ricevuto la suggestione (primo stadio) che si è insediata nel cuore a seguito del colloquio interiore (secondo stadio) non intraprendiamo il combattimento (terzo stadio) e non abbiamo la volontà ferma di resistere, di non acconsentire al peccato, non faremo altro che dare il nostro libero consenso (quarto stadio) alla proposta della suggestione perché abbiamo permesso al male di superare il primo stadio e di fare i successivi. Dopo aver ricevuto la suggestione, invece di togliercela dalla mente, abbiamo cominciato a parlarci (colloquio interiore), ci troviamo davanti al peccato, non siamo in grado di combatterlo e perciò diamo il nostro libero consenso, acconsentiamo al peccato.
Il peccato, pertanto, non è un qualcosa di immediato, ma il risultato del processo di questi quattro passaggi (suggestione, colloquio, combattimento, consenso) che vanno effettuati per non arrivare a dare direttamente il consenso.
Il vero peccato si commette in questo quarto stadio perché dando il nostro libero consenso (io voglio) diamo seguito al male e anche se il peccato non si concretizzerà esteriormente rimarrà interiormente: questo è il peccato di pensiero. Il consenso è già peccato anche se materialmente non lo mettiamo in atto. Gesù ha detto: “Chi guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” Mt 5,28.
Per riuscire a non dare il consenso al peccato dobbiamo chiederci: ‘Che cosa sento, l’attrazione al peccato? Mi piace? Mi sento sensibilmente attirato a compierlo? Lo farò?’. Se la risposta è no e decidiamo di non farlo saremo persone libere altrimenti saremo schiavi perché chi non domina sé stesso è uno schiavo: ‘l’uomo è essenzialmente ciò che decide e non ciò a cui lo porta l’attrazione dei sensi’.
L’Autore ricorda che secondo il catechismo della Chiesa cattolica, per commettere peccato ci vuole: piena avvertenza (rendersi conto delle azioni che si stanno per compiere e avere consapevolezza della bontà o della malizia dell’azione), deliberato consenso, materia grave.
- La passione
I pensieri che noi non combattiamo e non gestiamo indeboliscono il carattere. Il non lottare contro i pensieri cattivi, infatti, non fa altro che indebolire la nostra facoltà di risposta ad essi con la conseguenza che non sappiamo più dire di no a nessun pensiero e quindi lo assecondiamo e poi passiamo da un pensiero all’altro perché tutti i pensieri che non abbiamo mai scacciato sono rimasti e si sono ormai radicati dentro di noi.
Tormentati da tutti questi pensieri che si affollano nella nostra mente ed essendo deboli, nasce e si fa strada l’inclinazione al male che può diventare così forte da essere molto difficile resisterle.
La passione è il risultato dei pensieri che non abbiamo mai scacciato, ai quali non ci siamo mai opposti e che abbiamo fatto radicare in noi; è quella realtà che ci rende schiavi di tutti gli abusi e di tutte le dipendenze (abuso del bere, del sesso dell’ira ecc.). Questo è il motivo per cui di fronte alle passioni diciamo ‘vorrei non farlo ma non ci riesco’, perché le passioni sono il frutto dei processi descritti, non avvengono immediatamente anche se ci sembra che siano immediate.
Le passioni possono essere sradicate dal nostro essere solo attraverso un radicale cammino di conversione (come l’Autore ci ha detto in apertura della catechesi), con la grazia di Dio e la volontà. Prima di tutto dobbiamo chiedere la grazia a Dio, poi ci dobbiamo mettere la nostra volontà e poi ci vuole il tempo che è l’elemento discriminante perché per non essere schiavi delle passioni ed essere liberi dobbiamo combattere sempre, tutti i giorni, tutti i momenti, tutti i secondi.
L’Autore conclude dicendo che da oggi in poi quando riceviamo una suggestione, un’immagine una fantasia non dovremo dire “Oh guarda che immagine mi è venuta” ma “Qual è il problema? Tu che vuoi? Da dove vieni? Perché stai qui? Chi ti ha mandato?”. Dobbiamo interrogarla e questa ci risponderà; poi dobbiamo decidere cosa farne: non approvarla perché non ci piace, perché non rientra in ciò che vogliamo e cacciarla via. Una volta decretato questo l’immagine se ne andrà.
Dal momento che Dio ci ha creati nella libertà, nella grazia, nella giustizia, nella santità, noi siamo liberi, non dobbiamo diventare liberi. Se siamo liberi dobbiamo rimanere liberi e per poter rimanere liberi dobbiamo, con la volontà e la grazia di Dio, fare questo lavoro cioè fare nostro il processo attraverso il quale si arriva al vero peccato che è stato fin qui esposto.
08 Prima parte. L’esercizio della volontà e il fine al quale si devono indirizzare tutte le azioni interiori ed esteriori
L’Autore riprende l’analisi del trattato di Lorenzo Scupoli, che aveva momentaneamente abbandonato per spiegare che cos’è e come si arriva al vero peccato (catechesi n. 6 e 7).
Nella catechesi n. 5 ha esaminato l’esercizio dell’intelletto, in questa illustrerà l’esercizio della volontà e il fine al quale si devono indirizzare tutte le azioni interiori ed esteriori.
Innanzitutto precisa cosa vuol dire esercizio. Esercizio significa esercitarsi e lavorare su tutto ciò che è stato e sarà esposto nelle catechesi. L’esercizio dell’intelletto lo stiamo eseguendo? Ci stiamo esercitando a svolgere il processo attraverso il quale si arriva al vero peccato?
I concetti principali dell’esercizio della volontà e il fine al quale si devono indirizzare tutte le azioni interiori ed esteriori sono i seguenti:
- quando vogliamo una cosa o vogliamo fare qualcosa dobbiamo chiederci: “E’ secondo Dio? Se faccio questo violo un comandamento? E’ volontà di Dio che io faccia questo?”. Se non ci poniamo queste domande per capire se ciò che vogliamo o che vogliamo fare è conforme alla volontà di Dio, faremo ciò che è secondo la nostra volontà ma la sola nostra volontà ci porterà a fare cose non buone.
- Non è sufficiente il volere e procurare le cose che sono più gradite a Dio ma è necessario anche volerle e compierle come originate (mosse) da Lui e solamente allo scopo di piacergli. Bisogna arrivare al punto che il volere e compiere una determinata azione o cosa coincida con il volere stesso di Dio, sia mosso e compartecipe alla Sua volontà. Quando cioè il volere di Dio coincide con il nostro volere e il nostro volere coincide con il Suo, quando c’è unanimità e corrispondenza delle volontà, allora c’è la perfezione della volontà. Ne consegue che non vedremo più la volontà di Dio come qualcosa di impositivo bensì come qualcosa che parte da dentro di noi perché essendo identica alla Sua non possiamo volere altro che ciò che Lui vuole. E’ evidente che solo esercitandoci e lavorando potremo arrivare alla perfezione della volontà. Quindi, prima ancora di volere qualcosa e di porre in essere un atto di volontà dobbiamo essere in sintonia con Dio perché se non siamo in comunione con Lui la Sua e la nostra volontà non saranno coincidenti. Abitualmente, tutte le volte che facciamo una cosa la facciamo per il nostro piacere altrimenti non la faremmo. E invece non è così, anzi, è esattamente il contrario. Noi infatti, mossi dalla nostra volontà coincidente con quella di Dio, dovremmo fare quello che piace a Dio sia perché è ciò che piace a Dio che ci fa ‘essere’ (esistere come individui) nel momento stesso in cui noi piacciamo a Dio, sia perché noi ‘siamo’ (esistiamo come individui) nella misura in cui noi facciamo ‘essere’ (esistere) Dio in noi. Se non facciamo questo ci auto nullifichiamo, non ‘siamo’ (non esistiamo) perché chi dà fondamento al nostro ‘essere’ (esistere) non siamo noi ma è Dio. Noi ‘siamo’ (esistiamo come individui) nella misura in cui lo glorifichiamo e ci conformiamo a Lui.
- La natura umana è talmente inclinata verso sé stessa che in tutte le cose cerca solo il proprio utile (comodo) e il proprio piacere (diletto). Per glorificare e conformarci a Dio dobbiamo invece agire al contrario, cioè mettere da parte il nostro utile e il nostro piacere e volere il piacere di Dio. Questo concetto vale anche per le relazioni umane, per i rapporti interpersonali nei quali invece regna l’egoismo più puro perché non desideriamo il piacere dell’altro ma solo il nostro. E’ l’amore fa ‘essere’ (esistere) l’altro. Gesù crocifisso è l’amore, il dono di sé per gli altri senza aspettarsi nulla in cambio. Quando dobbiamo porre in essere un atto della nostra volontà, se questa non è mossa e non è conforme alla Sua volontà, se non ci conformiamo alle aspettative di Dio con il fine di piacere solamente a Lui, il nostro amore per Lui non è autentico perché non vogliamo (non cerchiamo) Dio ma i Suoi doni, ci attacchiamo più ai doni che non a Lui: al centro non ci mettiamo il Signore ma noi stessi. Se non entriamo in relazione autentica con Dio rischiamo di non volere Dio ma i doni di Dio. Domandiamoci allora che tipo di rapporto abbiamo con Lui, se lo abbiamo mai incontrato, se sappiamo chi è, se ci siamo mai intrattenuti con Lui, se percepiamo qual è il Suo volere, la sua identità, il Suo gusto, perché se non conosciamo quali sono i gusti di Dio non potremo mai volere quello che vuole Lui. Se non lo conosciamo non sapremo mai cosa desidera, come pensa, come agisce e non potremo volere quello che vuole Lui perché non siamo entrati in relazione con Lui (lo stesso vale per le relazioni umane).
- Dio per sua sola gloria si compiace e vuole da noi essere amato, desiderato ed obbedito. Obbedito è al terzo posto perché se non lo amiamo e non lo desideriamo è impossibile obbedirgli.
Obbedire non deve essere inteso come una imposizione ma come il prodotto di un processo di amore e di desiderio in base al quale l’obbedienza non sarà altro che la compartecipazione al volere dell’amato.
I ‘Comandamenti’ sono ‘Parole’ di amore che Dio dice all’amato. La traduzione fatta della parola è errata. Infatti, la parola ebraica עֲשֶׂרֶת הַדְּבָרִים (asèret hadvarìm) significa ‘dieci le parole’. Nel Pentateuco (i primi cinque libri della Bibbia) i ‘Dieci Comandamenti’ sono chiamati “le Dieci Parole”, i dieci detti. Nel Deuteronomio, quinto libro del Pentateuco, è scritto: «Egli [Dio] vi dichiarava il suo patto, che vi comandò di mettere in pratica, le ‘Dieci Parole’» (Dt 4,13). La stessa parola “Decalogo” con la quale sono anche chiamati i ‘Comandamenti’, deriva dal greco δέκα (dèka) che significa “dieci” + λόγος (lògos) che significa “parola”.
I ‘Comandamenti’ non sono imposizioni o proibizioni perché Dio non vuole sottometterci ma desidera per noi, che siamo suoi figli, l’amore più grande. Le ‘Dieci Parole’, quindi, sono il risultato dell’amore di Dio che si preoccupa di indicarci come vivere per realizzarci pienamente.
- Con l’esercizio della volontà dobbiamo perciò abituarci a volere e fare tutto come mossi da Dio e con la pura intenzione di onorare e di compiacere Lui solo che vuole essere ed è unico principio e fine di ogni nostra azione, di ogni nostro pensiero, di ogni nostro desiderio. Questo esercizio è valido per tutti indistintamente perché è rivolto all’anima (Scupoli nel suo trattato si rivolge all’anima).
Finora abbiamo agito e fatto tante cose senza pensare o le abbiamo fatte per noi stessi e non per il Signore. Da ora in poi, prima di fare una cosa, anzi ancora prima di pensarla, domandiamoci: “Da chi sono mosso? Da Dio? No, perché se fossi mosso da Dio non farei peccato quindi sono mosso da Satana o da me stesso (che è simile). Per chi lo sto facendo? Per quale scopo? Per quale fine? Con quali obiettivi? Con quali mezzi?”. Facciamo questo esercizio continuo.
- Inoltre, quando ci si presenta una cosa voluta da Dio, prima di dire che è giusta, è necessario fare attenzione e comprendere se è volontà di Dio che noi la vogliamo cioè se è veramente così che Lui vuole e per piacere solamente a Lui. Solo entrando in una profonda relazione con Dio sapremo se la cosa che ci si presenta viene da Dio o da Satana perché anche Satana può proporci le cose come positive e farci vedere il bene in una situazione dove magari c’è una necessità vera ma nascosto dietro il bene c’è il male e ce lo presenta in una forma piacevole. Il demonio non ci fa mai vedere una cosa come negativa altrimenti non la faremmo, ce la fa vedere come qualcosa di giusto per noi e conforme alla volontà di Dio e noi cadiamo nell’inganno. Per essere sicuri che la cosa che ci si presenta viene da Dio, dobbiamo rivolgerci al Signore e chiederlo a Lui. Solo dopo aver fatto questo discernimento la nostra volontà può volere quella cosa come voluta da Dio e dobbiamo accettarla non per piacere a noi stessi ma per piacere a Lui. Se con il discernimento comprendiamo che la cosa non è secondo Dio saremo in grado di rifiutarla e qualora la accettassimo come proveniente da Dio dobbiamo comunque accettarla non per piacere a noi stessi ma per piacere a Lui. Questo perché se Dio è l’inizio e la fine di ogni cosa allora questa è secondo Dio; se invece il fine siamo noi, la nostra gloria, il nostro benessere, il nostro stare bene, al centro ci siamo noi, c’è il nostro ego, il nostro Io. Il fine ultimo verso il quale muovere ogni azione è Dio perché il termine ultimo della perfezione è Dio non noi.
08 Seconda parte. L’esercizio della volontà e il fine al quale si devono indirizzare tutte le azioni interiori ed esteriori
L’Autore prosegue nell’illustrazione dei concetti principali dell’esercizio della volontà e il fine al quale si devono indirizzare tutte le azioni interiori ed esteriori iniziata nella prima parte della catechesi n. 8.
- la nostra natura umana è sottile (cioè arguta, astuta, scaltra) e ingannevole e cerca occultamente e palesemente sé stessa in tutte le cose e molte volte fa sembrare che in noi ci sia la volontà di fare la volontà di Dio e di fare ciò che è a Lui gradito ma non è vero perché noi segretamente (occultamente) vogliamo fare la nostra volontà che palesemente dissimuliamo con il perbenismo e con la (finta) sottomissione a Dio. Ciò è vero perché nel momento in cui Dio manifesterà apertamente la Sua volontà su di noi ci ribelleremo, non la accetteremo, la metteremo in discussione e la criticheremo perché non è uguale al nostro volere perché va in contrasto con il nostro ego. Questa è la nostra ipocrisia: la falsa sottomissione a Dio. Affermiamo che stiamo facendo la volontà di Dio e invece è la nostra volontà che stiamo facendo o comunque ci facciamo passare come qualcuno che vuole fare la volontà di Dio.
- Nel combattimento spirituale è necessaria la purezza del cuore. Un cuore puro è un cuore non contaminato da altro. Se facciamo entrare nel cuore elementi esterni a Dio (sensualità, egoismo, alterigia, superbia, orgoglio, vanagloria ecc.), esso non sarà più un cuore puro e questi elementi esterni ci impediranno di vedere Dio. Se il cuore non è puro ma contaminato dagli elementi esterni, i nostri atti di volontà saranno mossi da interesse, da tornaconto, da invidia, da rancore e/o da qualche altro elemento che rende impuro l’atto volitivo. Quindi, prima di formulare un atto di volontà, dobbiamo esaminarci, interrogarci e domandarci: “Da che cosa sono mosso nel volere questa cosa? Che cosa mi spinge a volere o non volere questa cosa? Qual è l’obiettivo che io sto ponendo in essere per esercitare la mia volontà verso quella cosa? Perché sto facendo questo atto volitivo?”. Se non eseguiremo questo percorso di conoscenza non faremo mai la volontà di Dio ma sempre e solo la nostra che per di più sarà impura perché inquinata dagli elementi esterni a Dio (le passioni).
- Possiamo comprendere se l’atto di volontà che vogliamo compiere è volere di Dio dalla purezza dell’intenzione, cioè se il fondamento per il quale desideriamo fare quell’azione non siamo noi (le nostre passioni, le nostre volizioni, i nostri tornaconti, i nostri interessi) ma il puro e semplice volere di Dio che porta non al nostro bene ma al bene dell’altro, degli altri, di tutti gli altri (non a fare il bene solo per qualcuno a cui vogliamo bene). Saremo sicuri di essere mossi dal puro e semplice volere di Dio solo se prima elimineremo dal cuore l’amor proprio, l’egoismo, l’egolatria, la superbia, la presunzione, l’orgoglio, la vanagloria e così via. Se non lo faremo saremo sempre e solo mossi da noi stessi. Per ogni azione che compiamo dobbiamo, pertanto, verificare sempre che sia corrispondente alla volontà di Dio che è e deve essere l’inizio e la fine del nostro volere. Tutto ciò non è sempre chiaro e facile da interiorizzare e acquisire ma è necessario almeno avere sempre l’intenzione di raggiungere questo scopo. Se non facciamo nostro e viviamo sempre questo principio, rischiamo che inizialmente partiamo con il fare il volere di Dio per finire, invece, per fare il nostro volere perché si insinuano gli elementi esterni. Dobbiamo, inoltre, fare in modo che la scelta di compiere la volontà di Dio rimanga nel tempo e soprattutto dobbiamo verificarla in itinere cioè mentre la stiamo compiendo e fino al suo realizzarsi. Spesso succede che intraprendiamo un’azione con buone intenzioni ma man mano che la portiamo avanti, vedendo che è una cosa buona, siamo talmente compiaciuti di questa cosa che quasi senza accorgercene ci compiaciamo di essa stessa con i nostri sensi a tal punto da dimenticarci della divina volontà che era l’incipit iniziale e da attaccarci al gusto sensibile, all’utile e all’onore che ci può derivare da questa azione e se il Signore mette un impedimento a questa azione ce la prendiamo sia con gli uomini sia con Dio.
- Il problema della nostra natura corrotta è l’egolatria (culto di sé stessi) che domina le nostre azioni. Ciò è evidente quando l’azione non si realizza pienamente. Se mentre stiamo facendo un’azione subentra qualcosa che si interpone impedendone il compimento e noi diamo il nostro assenso, significa che non lo stavamo facendo per il Signore ma per noi stessi. Il Signore a volte permette il fallimento di un’azione perché al centro c’eravamo noi, per farci capire che dobbiamo calpestare la nostra egolatria. Al contrario, quando noi facciamo veramente un’azione per il Signore dobbiamo preoccuparci solo di qual è la Sua volontà, il Suo volere, eseguirlo e non preoccuparci se arriverà o no a compimento perché il compimento lo decide Lui (la storia di Abramo e del sacrificio di Isacco è esemplificativa). Dobbiamo perciò seguire l’intenzione di Dio dall’inizio alla fine, stare attenti se l’intenzione di Dio cambia in corso d’opera cioè se Dio sta cambiando qualcosa nella nostra vita, non fare entrare elementi esterni che si insinuano per condizionare il volere di Dio e per metterci il loro volere e distoglierci dall’obiettivo. Non si tratta, quindi, di fare solo la volontà di Dio ma anche di essere capaci di vedere in itinere il suo cambiamento e la sua evoluzione.
- La logica delle nostre azioni deve essere quella dell’amore che è donare sé stessi. Gesù crocifisso è l’amore, il dono di sé per gli altri senza aspettarsi nulla in cambio. Chi ama non fa qualcosa per un motivo, lo fa e basta; se invece lo fa con uno scopo rovina l’amore rendendolo egoista. Dio ci ha creato per amore, non aveva bisogno di noi, e ci chiede amore (“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”, Gv 15,12). Noi cerchiamo, vogliamo e amiamo Dio sopra qualsiasi altra cosa e persona? L’esercizio di fare tutto allo scopo di piacere a Dio è arduo ma diventerà facile se lo faremo sempre.
L’Autore termina leggendo la Prima lettera di San Paolo apostolo ai Tessalonicesi, capitolo 4 versetti 1-3, dove San Paolo ci dice che cos’è la volontà di Dio.
“Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più. Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù. Questa infatti è la volontà di Dio, la vostra santificazione”.
La volontà del Signore su di noi, perciò, è la nostra santificazione che vuol dire che tutto ciò che Lui ha fatto, ha detto e ha compiuto deve essere oggetto dei nostri desideri, dei nostri pensieri, delle nostre volizioni.
Dalla prima lettera di San Paolo apostolo ai Tessalonicesi (capitolo 4)
1 Per il resto, fratelli, vi preghiamo e supplichiamo nel Signore Gesù affinché, come avete imparato da noi il modo di comportarvi e di piacere a Dio – e così già vi comportate –, possiate progredire ancora di più.
2 Voi conoscete quali regole di vita vi abbiamo dato da parte del Signore Gesù.
3 Questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impurità,
4 che ciascuno di voi sappia trattare il proprio corpo con santità e rispetto,
5 senza lasciarsi dominare dalla passione, come i pagani che non conoscono Dio;
6 che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello, perché il Signore punisce tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e ribadito.
7 Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione.
8 Perciò chi disprezza queste cose non disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo santo Spirito.
9 Riguardo all’amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri,
10 e questo lo fate verso tutti i fratelli dell’intera Macedonia. Ma vi esortiamo, fratelli, a progredire ancora di più
11 e a fare tutto il possibile per vivere in pace, occuparvi delle vostre cose e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato,
12 e così condurre una vita decorosa di fronte agli estranei e non avere bisogno di nessuno.
13 Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza.
14 Se infatti crediamo che Gesù è morto e risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti.
15 Sulla parola del Signore infatti vi diciamo questo: noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore, non avremo alcuna precedenza su quelli che sono morti.
16 Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo;
17 quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore. 18 Confortatevi dunque a vicenda con queste parole.
09. Molte volontà esistono nell’uomo. La guerra che si fanno tra loro
a) alcune considerazioni che inducono la volontà a volere in ogni cosa il beneplacito di Dio
Volere in tutte le cose il beneplacito di Dio non significa chiedere a Dio l’approvazione delle nostre scelte, ma vuol dire che noi in tutte le cose dobbiamo ricercare ciò che piace a Dio (v. catechesi n. 8 prima e seconda parte), non ciò che piace a noi.
Noi non facciamo ciò che piace al Signore perché non siamo coscienti di tutto quello che Dio ha fatto per noi. Ci ha creato, amato, redento: ci ha dato tutto. Nella creazione ci ha creato dal nulla a sua somiglianza e ha messo tutte le altre creature a nostro servizio (cfr. Gen 1,26-28). Nella redenzione ha mandato Suo Figlio a redimerci con il suo sangue prezioso (cfr. Pt 1,18-19) versato con la morte in croce. Nell’Antico Testamento ha mandato i profeti, ma l’Antico Testamento è preparatorio al Nuovo Testamento nel quale arriva il Figlio nella pienezza dei tempi (cfr. Galati 4,5). Cos’altro deve fare Dio?
Neanche sapere queste cose ci fa distaccare dai nostri peccati, smettere di giocare con la nostra vita e spogliarci di noi stessi. Neanche queste cose ci svuotano [dal greco κένωσις, (kénōsis) (in italiano ‘kénosi’ o ‘chénosi’) che deriva dal sostantivo κενός (kenós), che significa ‘vuoto’. Nella Lettera ai Filippesi (cfr. Flp 2,7), San Paolo scrisse: «Cristo svuotò sé stesso (ἐκένωσε, ekénōse)», usando il verbo κενόω (kenóō) che, appunto, significa ‘svuotare’. Gesù «essendo in forma di Dio» svuotò sé stesso «prendendo forma di servo divenendo simile agli uomini» incarnandosi, ossia, Gesù, nel prendere la forma umana e nel morire sulla croce, spogliò sé stesso della sua forma divina, si umiliò e assunse la condizione di servo. Per metafora, si definisce svuotamento o spogliamento kenotico uno stile di vita umile, dimesso e nascosto, alieno da qualunque ostentazione o compromesso con la mondanità, tipico di quanti conducono vita ascetica, monastica o eremitica].
Non siamo nemmeno consapevoli che l’Eucarestia è la manifestazione della più grande premura di Dio nei nostri confronti perché nell’Eucarestia Dio si dona continuamente a noi.
Non sappiamo e non ci accorgiamo di tutto ciò che il Signore fa per noi in silenzio. Non ci rendiamo minimamente conto che è Lui, che ci è sempre accanto, a risolvere e a farci superare le prove, la cui riuscita, invece, attribuiamo a noi stessi. Senza di Lui non possiamo risolvere nulla altrimenti riusciremmo a uscire fuori da soli da ogni situazione sempre.
Il Signore da noi vuole essere onorato e servito. Onorare Dio significa osservare i Suoi Comandamenti (“le Dieci Parole” – v. catechesi n. 8 prima parte) cioè le ‘Parole’ di amore che Dio dice all’amato cioè a noi. Quindi, è quando osserviamo i Comandamenti che stiamo onorando Dio, non quando, credendo di onorarlo, facciamo atti di culto al Signore come andando a Messa tre volte al giorno, facendo innumerevoli Rosari al giorno, facendo novene ecc. Il Signore della ripetizione di gesti e azioni abitudinarie, che a volte diventano quasi vere ossessioni, non sa cosa farsene. Se è vero che il Signore non ha bisogno del culto, è però altrettanto vero che non è possibile onorare Dio senza il culto al quale bisogna dare vita con la prassi, con l’attività pratica, perché il culto a Dio ha senso se viene vissuto nella prassi altrimenti non serve a niente. Ortodossia, cioè retto pensare, [dal greco ὀρϑοδοξία (ortodossia) composta da ὀρϑός (ortós) che significa ‘retto’ e δόξα (doxa) che significa ‘opinione’] e ortoprassi, cioè retto agire, [dal greco ὀρϑός (ortós) che significa ‘retto’ e πρᾶξις (pràxis) che significa azione], vanno di pari passo, se sono scisse scadiamo nell’ipocrisia (il far vedere ciò che non si è).
Onoriamo il Padre, perciò, quando pensiamo e agiamo rettamente osservando i Suoi Comandamenti, facendo il nostro dovere, impegnandoci, pregando, dando buona testimonianza e così via e non fermandoci alla regola con l’osservanza formale e la ripetizione quasi automatica di riti e preghiere (azioni di culto) che non hanno niente a che vedere con la relazione, il rapporto fiducioso e autentico, perché libero, volontario e gratuito, con Dio.
b) molte volontà esistono nell’uomo. La guerra che si fanno tra loro
Le volontà che esistono e agiscono nell’uomo sono tre:
- la volontà di Dio, che il Signore esercita su di noi per esempio con il disgusto e/o il rimorso di aver fatto una cosa, la paura, la perdita di fiducia in sé stessi, l’instabilità, la depressione, la nevrosi;
- la volontà della ragione, chiamata volontà ragionevole e superiore;
- la volontà del senso (dei cinque sensi), chiamata volontà inferiore e sensuale.
Le tre volontà (divina, razionale e sensoriale) agiscono su di noi, ma quella dalla quale siamo mossi, che prevale e che comanda è la volontà del senso.
Per esempio, il sesto comandamento ci prescrive di non commettere adulterio (volontà di Dio), la nostra ragione (volontà superiore) lo accoglie, lo accetta, acconsente, i nostri sensi (volontà inferiore) ci inducono e ci fanno fare il contrario e pertanto prevalgono e comandano. Dentro di noi, quindi, non comandano né Dio e né la ragione ma i sensi.
È il nostro appetitus sensitivus (appetito sensibile), cioè la volontà del senso, che ci spinge a ricercare il raggiungimento di un fine, l’appagamento di un’aspirazione o la soddisfazione di un bisogno materiale, ma è la volontà razionale (superiore) che deve agire sulla volontà sensoriale o appetitiva (inferiore) per poter raggiungere ed ottenere ciò che la volontà sensoriale ci fa desiderare. È perciò la volontà della ragione che detta alla volontà del senso la volontà di agire (di fare qualcosa).
Aristotele (filosofo greco 384-322 a. C.) indica con il termine ὂρεξις (órexis) il desiderio o la brama (termine tradotto in latino con appetitus), che, in quanto principio che spinge all’azione, può essere posto sotto il controllo della parte razionale oppure dei sensi.
In natura solo gli animali sono mossi dalla volontà sensoriale perché non hanno né una volontà di Dio a cui rispondere né una ragione superiore. Aristotele nel settimo libro della Metafisica paragrafo 1, afferma che “L’uomo è un animale razionale” e quindi l’unica cosa che ci distingue dagli animali è la volontà della ragione (superiore) senza la quale saremmo uguali ad essi. E se non esercitiamo la volontà razionale rimangono quella sensoriale e quella divina anche se noi la volontà divina non la ascoltiamo proprio.
L’Universo e i pianeti, le stelle, le galassie da cui è composto, da quale volontà sono mossi? Secondo Aristotele e San Tommaso d’Aquino, ‘Tutto ciò che si muove è mosso da altro’ (Quidquid movetur ab alio movetur). Un oggetto collocato in un determinato posto rimarrà lì finché un altro non lo sposterà o prenderà (ab alio movetur). Questo concetto vale anche per i nostri sensi i quali si muovono se noi li facciamo muovere. Noi pecchiamo perché è la nostra volontà razionale (superiore) che dice alla volontà sensoriale (inferiore) di procedere e quindi di peccare, non dobbiamo dare la colpa al caso (dicendo “è successo”) o ad altri, la colpa è solo nostra.
Non saremo persone libere fino a che non eserciteremo quotidianamente la volontà della ragione (superiore). Saremo liberi solo lavorando su noi stessi per far prevalere la volontà superiore su quella inferiore del senso e man mano che lo faremo la prima comanderà sulla seconda e sarà più facile e diventerà abituale fare ciò che piace a Dio e ciò che Dio vuole da noi veramente. Fintanto che non lo faremo saremo schiavi.
La volontà della ragione va esercitata non solo per i peccati maggiori (non uccidere, non rubare, non commettere adulterio, non commettere atti impuri, ecc.) ma anche per quelli minori (pettegolezzi, malignità, compiacenza di noi stessi e di quello che facciamo, il volere riconoscimenti, mancanze di perdono, pensieri impuri, chiusura, durezza, bugie, piccinerie, rivendicazioni, torti, ecc.). Il dominio di noi stessi deve essere totale. Pochissimi raggiungono lo scopo della perfezione.
Non lottare per combattere anche i peccati minori, infatti, fa si che con il passare del tempo questi si sommano uno ad uno, si stratificano e si depositano nel cuore che si indurisce, diventa di pietra e non permette più alla grazia di lavorare su di lui e di battere. È il cuore di pietra di cui parla Ezechiele: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (cfr. Ez 36,26-27).
Fra i peccati minori ci sono i ‘cosiddetti recuperi’: non rubo, ma se tocchi qualcosa che mi appartiene ti ammazzo; non dico esplicitamente che aspiro a ricoprire un ruolo importante, ma faccio di tutto perché questo accada che è ancora più subdolo perché agisco con malizia; faccio il digiuno e finito il digiuno mangio cose raffinate e costose; faccio una cosa buona per ricevere approvazione, adulazione, riscontro economico o materiale o spirituale, quindi distruggo ciò che ho fatto di buono; rivendico di aver fatto tanto per una persona con la quale non sono più in rapporti lamentandomi che non mi ha detto neanche un grazie, quindi annullo il merito che avevo acquisito perché tutto ciò che ho fatto per quella persona l’ho fatto perché mi aspettavo un riscontro di qualsiasi natura.
Il modo di agire di Dio, invece, è quello di Gesù che dopo la resurrezione entra nel cenacolo e dice agli apostoli che lo avevano lasciato solo, abbandonato, tradito e rinnegato: «Pace a voi! Ricevete lo Spirito Santo. A chi perdonerete i peccati, saranno perdonati; a chi li riterrete, saranno ritenuti» (cfr. Gv 20,19-23).
Fare un vero cammino verso la perfezione cristiana, inoltre, consiste nel vedere ciò che ancora dobbiamo fare per raggiungerla, non constatare e compiacerci di quello che abbiamo acquisito. Se vediamo ciò che abbiamo acquisito, presumiamo di non essere troppo male, ci compiaciamo del cammino fatto, ci accontentiamo e torniamo indietro. I più grandi Santi si ritenevano i più grandi peccatori perché si vedevano lontani dalla perfezione, vedevano quanta perfezione dovevano ancora raggiungere e non si compiacevano dei dati acquisiti. L’autocompiacimento di chi ha raggiunto un certo grado di perfezione (presunta santità) inoltre, ci fa allontanare da coloro che non sono al nostro livello. Questa è una grave forma di superbia spirituale perché il Signore è venuto a cercarci proprio quando noi eravamo nel peccato.
10. Come combattere contro i sensi
Preliminarmente è opportuno precisare che con il termine ‘abitudine’ Lorenzo Scupoli intende l’‘abitudine perfetta’ cioè il concetto di ‘habitus’ morale di cui tratta San Tommaso D’Aquino nella “Somma Teologica” una delle sue maggiori opere.
‘Abitudine’ deriva dal latino ‘habitus’ che a sua volta deriva dal greco ‘héxis’ (ἕξις) che significa ‘l’avere, il possesso (dell’animo o del corpo), modo di essere, qualità, stato, condizione, capacità, abilità, abito, potere, forza’.
Abitudine e habitus sono due cose diametralmente opposte.
L’abitudine è una routine, un meccanismo fisso, un atto irrazionale che viene fatto inconsapevolmente (tutti noi abbiamo tante abitudini) e quindi non è un atto morale virtuoso.
L’habitus è uno status morale (modo di essere che si possiede, che si ha) della persona che ha fatto delle virtù qualcosa di stabile e di durevole.
L’abitudine è dannosa, l’habitus è virtuoso.
Nella catechesi n. 9 abbiamo visto che nell’uomo ci sono tre volontà: la volontà di Dio, la volontà della ragione e la volontà del senso che entrano in conflitto tra di loro nel momento in cui dobbiamo gestire passioni, desideri, attrazioni, tentazioni.
La presente catechesi è una guida per modificare e vincere sé stessi, avanzare nel cammino spirituale e diventare veramente spirituali. È una guida per ottenere virtù e spirito vero combattendo gli appetiti sensibili (tutti gli istinti, le passioni, i desideri, le tendenze, i vizi, le inclinazioni) attraverso atti interiori ed esteriori conformi alla volontà di Dio, i quali (atti interiori ed esteriori) sono mossi innanzitutto dalla volontà della ragione (superiore) e vanno in contrasto con la volontà del senso (inferiore). Solo al termine della lotta tra ragione e sensi e solo dopo aver sconfitto la volontà del senso, può prevalere e trionfare la volontà di Dio che ha sempre priorità ed è sovrana, cioè al di sopra della volontà della ragione e di quella del senso. La volontà divina è il fondamento e l’origine di tutto e in essa devono essere ricapitolate e riassunte la volontà razionale e la volontà sensoriale.
L’Autore analizza il processo descritto da Lorenzo Scupoli attraverso il quale combattere contro gli impulsi dei sensi ed espone quali sono gli atti che la volontà deve fare per acquistare le abitudini alle virtù, specificando che questo esercizio è un esercizio per principianti e si svolge attraverso sei stadi.
Quando siamo attaccati dalle passioni, per prima e immediatamente deve intervenire la volontà della ragione. In questo primo stadio la volontà di Dio non è prevista, non c’entra, perché quando abbiamo un impulso a compiere il male, per combatterlo e opporci all’impulso dobbiamo fare un atto razionale, deve predominare la volontà superiore per contrastare la volontà inferiore. Se la volontà della ragione non domina la volontà dei sensi, quest’ultima prenderà il sopravvento e finiremo per essere in balia dei sensi con la conseguenza di arrecare molto danno a noi stessi e agli altri.
Dopo aver dominato i sensi con la volontà ragionevole, dobbiamo richiamare nella mente l’impulso che abbiamo combattuto per ricordare qual è stata la nostra reazione. Il ricordo della nostra reazione ci fa vedere di nuovo come dovremo reagire quando lo stesso impulso si ripresenterà fino a far diventare quella reazione un’abitudine cioè per fare in modo che la gestione dello stesso impulso diventi una virtù la quale ci farà dominare quell’impulso con più ostinazione. Eseguire questo stadio serve sia a rafforzare ancora di più la nostra capacità decisionale di contrastare i sensi, sia a farci capire che è possibile dominarli e scoprire che abbiamo il potere enorme di controllarli e comandare su di essi.
Per avere un’ulteriore conferma del dominio della nostra ragione sui nostri sensi, dobbiamo rievocare ancora una volta l’impulso combattuto perché in questo modo ci abitueremo ad allontanarlo da noi e a mandarlo via con disgusto.
Questi ultimi due stadi vanno eseguiti per tutti gli appetiti sensibili ma non per quelli carnali che saranno trattati da Scupoli successivamente in quanto, a questo livello, seguendo il processo sopra descritto, forse riusciremo a dominare la gola, l’ira, l’invidia o altre cose ma, essendo dei principianti, non abbiamo né la forza, né la capacità di dominare la carne.
È necessario poi fare atti contrari agli appetiti sensibili perché attraverso di essi acquisiamo l’abitudine alla virtù contraria a quella passione.
Innanzitutto bisogna riflettere e ragionare per capire il motivo che ci porterebbe a dare seguito a quell’appetito e poi dobbiamo provare a dominarlo per non assecondare il primo impulso dei sensi che ci farebbe compiere il male. Questo è un primo approccio al dominio che però, andando avanti, deve essere sempre più deciso e voluto perché il nemico (Satana) non si arrenderà, ci tenterà ancora e a questo punto dovremo nuovamente, esplicitamente e con decisione ancora maggiore formulare un comando alla volontà superiore per contrastare quella inferiore. La finezza del demonio, infatti, sta in questo: lui attacca, noi controbattiamo e lì per lì vinciamo, vincendo ci rilassiamo, ci compiaciamo di essere riusciti a vincere e lui ricomincia e ci riattacca ma lo fa su una cosa diversa che non ci aspettavamo perché il nemico sa che attraverso l’esercizio a fare atti contrari agli appetiti sensibili noi acquisiamo l’abitudine alla virtù contraria a quella passione.
Non dobbiamo ingannarci credendo che aver acquisito l’abitudine alla virtù contraria a quella della passione significhi dominare le passioni perché non è automatico. Infatti, ogni volta che il nemico ci attacca dobbiamo formulare con decisione il nostro diniego con un atto della volontà superiore e fare questo non è un’abitudine. Il nemico, inoltre, insinuando in noi il pensiero che dopo vari combattimenti spirituali contro le passioni siamo in grado di dominare i sensi con la volontà superiore, ci fa cadere nella vanagloria, nell’orgoglio e nella superbia spirituale facendoci credere e dire che ormai noi i sensi siamo in grado di dominarli e li dominiamo. A questo punto è necessario mettere in atto un’altra volta il punto 2.
Come con i pensieri e con le suggestioni non dobbiamo entrare in colloquio (v. catechesi n. 7), così dobbiamo fare con gli impulsi, ossia non dobbiamo scendere a compromessi, esitare o fare finta di dominarli, ma dobbiamo essere determinati a dominarli e dominarli.
Per detestare totalmente il doverci confrontare per l’ennesima volta con quell’impulso che non siamo riusciti a dominare, dobbiamo mettere in atto un’altra volta il punto 3.
Quando proveremo odio nei confronti di quell’impulso significa che saremo arrivati a detestarlo realmente.
Per arrivare a questo punto dobbiamo pertanto mettere in atto questo processo: fare un atto razionale (punto 1); ritornarci sopra (punto 2); ritornarci sopra ancora una volta dominando l’impulso (punto 3); fare atti contrari all’impulso per acquisire l’abitudine alla virtù contraria a quell’impulso (punto 4); detestarlo (punto 5).
L’ultimo stadio consiste nell’arricchire e perfezionare la nostra anima con le abitudini alle virtù.
Dopo aver acquisito l’habitus del dominio degli appetiti sensibili, quando cioè le virtù sono diventante qualcosa di stabile e di durevole, per arricchire e perfezionale la nostra anima con le abitudini alle virtù, dobbiamo anche amare il disprezzo che riceviamo e chi ci disprezza, quindi perdonare. Amare il disprezzo ricevuto e chi ci disprezza (perdonare) fa bene all’anima perché ci mette in discussione e non ci fa sentire ‘santi’ (io non ammazzo, non rubo e non mi devo confessare). È ciò che Gesù ci ha detto nel Vangelo: “Amate i vostri nemici pregate per i vostri persecutori perché siate figli del Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 44-45). Ma noi amiamo chi ci disprezza? Noi che facciamo un cammino non dobbiamo giustificarci e dire che non ce la facciamo perché è difficile, ma dobbiamo impegnarci a cambiare chiedendo aiuto al Signore.
Questo esercizio va ripetuto tre volte come l’esercizio del dominio dei sensi.
Tutto quanto descritto sinora si raggiunge attraverso questo itinerario di progresso spirituale che è arduo, ma diventerà facile se lo faremo sempre ed è raggiungibile da tutti purché ci sia la volontà di farlo e l’impegno.
Un vizio diventa tale in seguito alla ripetizione nel tempo di quel vizio e per sradicarlo non basta un atto virtuoso ma è necessaria la reiterazione nel tempo dell’atto virtuoso contrario a quel vizio. La reiterazione nel tempo dell’atto virtuoso contrario a quel vizio ci farà progredire nella virtù. Per andare contro un vizio dobbiamo lavorare tanto senza scoraggiarci e dire che non ce la facciamo e che siamo fatti in quel determinato modo perché questo significa che non vogliamo uscirne perché combatterlo per uscirne fa male, perché c’è tanto lavoro da fare e ormai abbiamo preso l’abitudine a quel vizio. Se non lottiamo seriamente e continuamente contro il vizio rischiamo non solo di non progredire ma di ritornare indietro e distruggere anche quel poco di cammino che abbiamo fatto.
Combattere i vizi vuol dire agire contrariamente (agere contra) al proprio istinto in modo reiterato cioè sempre: di fronte ad una persona che non sopportiamo, la prima volta non riusciremo a trattarlo con pazienza, ma provandoci e riprovandoci più volte (reiterazione) questo comportamento diventerà un modo di essere cioè habitus. L’habitus di agire contrariamente (agere contra) al proprio istinto si acquisisce con la reiterazione cioè lavorando tanto su noi stessi, credendo di poterci riuscire e non rassegnandoci dicendo che non ci riusciamo: la nostra virtù consiste nel provarci non nel riuscirci. Se ci impegneremo in tal senso con continuità, cioè sempre, malgrado le difficoltà che troveremo nell’affrontare il combattimento dei vizi, rialzandoci e andando avanti nonostante le cadute, il Signore lo apprezzerà moltissimo. Questo percorso non serve per fare di noi persone perfette, ma per lavorare e comprendere qual è l’atteggiamento da assumere davanti a Dio e davanti a noi stessi per essere graditi a Lui e arrivare alla santità. Perseverando ne usciremo vittoriosi, desistendo dal combattimento ne usciremo sconfitti. Per dominare i sensi, quindi, è necessario, con la grazia di Dio, rischiare, puntare tutto sulla lotta, volere fortemente non essere viziosi, avere la volontà di cambiare e di correggerci.
Occorre inoltre stare attenti a non sottovalutare le piccole passioni sentendosi forti di essere riusciti a vincere una grande passione. Infatti, non si tratta di combattere solo le grandi passioni ma di opporre resistenza anche alle passioni più piccole che sono anche le più numerose, aprono la strada a quelle più grandi e fanno nascere le abitudini viziose. Siamo capaci di dire no alle piccole passioni, di fare a meno di qualche ‘abitudine’ cioè di qualche atteggiamento non virtuoso? Abbiamo mai provato a farne a meno? Proviamoci, forse ci riusciremo.
A volte bisogna reprimere anche il desiderio di cose lecite ma non necessarie. Di fronte alla scelta tra pregare e fare un’opera di carità, che sono due azioni lecite, dobbiamo capire quale delle due è più necessaria per noi. Esempio: in un determinato momento sarebbe più utile per noi pregare stando un’ora in adorazione, ma siccome stare davanti al Santissimo non ci piace tanto, diciamo che è più necessario andare dai poveri: fare questo gratifica il nostro ego mentre davanti al Santissimo non ci vede nessuno. Questa è un’altra finezza del nemico (Satana) che ci propone un’alternativa lecita a quella da cui, invece, trarremmo beneficio.
L’Autore termina invitando a seguire, affinché diventi una consuetudine, questa guida alla lotta degli appetiti sensibili (tutti gli istinti, le passioni, i desideri, le tendenze, i vizi, le inclinazioni) per ottenere virtù e spirito vero, per modificare e vincere sé stessi, per avanzare nel cammino spirituale e diventare veramente spirituali.
«Se non facciamo questo processo di lotta non saremo mai graditi a Dio, non avanzeremo mai nella vita spirituale vera e ci illuderemo di essere spirituali quando non lo siamo. Se anche ci mettiamo a colloquiare con il Signore, senza lotta questo colloquio non è vero, è falso. Che cosa è meglio, stare un’ora in adorazione o un’ora in lotta? Per alcuni è meglio la lotta per altri è meglio l’adorazione. Chi è che capisce questo? Chi sta già lottando opterà per l’adorazione, chi non sta lottando lasci perdere l’adorazione ma lotti. C’è un’ora di adorazione in parrocchia, andiamo? No, perché devo lottare con un problema. Chi fa questo è intelligente, chi non lo è dirà: “andiamo a pregare che è meglio”. Non ci ha capito niente. La virtù non nasce e né consiste negli esercizi piacevoli e conformi alla nostra natura. Dici: “Ah, io sono tutto trasportato per l’adorazione eucaristica” ma non sopporti tante cose, litighi e mandi a quel paese tutti. Ma i frutti dell’adorazione dove sono? Sono dubbi. Vi deve puzzare una persona quando la vedete in adorazione e poi è intrattabile con gli altri c’è qualcosa che non va. Una suora acida è un’antinomia. Una sposa di Cristo non può essere acida perché ama lo Sposo, non è una zitella ma anche una zitella, una vedova, una normale non è tollerabile che sia acida. Nessuno può e deve essere acido: se è acido si guardi dentro e guardi che cosa c’è che non va. Assecondare le proprie voglie (andare a fare adorazione) non è sinonimo di spiritualità, anzi, è sinonimo di egolatria: a me piace fare l’adorazione e ci sto tre ore, a me non piace lottare contro una mia passione e non lo faccio (questa si chiama egolatria spirituale)».
11. Prima parte. Quello che si deve fare quando la volontà superiore pare vinta e soffocata in tutto da quella inferiore e dai nemici
In questa catechesi l’Autore illustra le logiche da applicare a noi stessi e soprattutto durante la nostra vita per costruire un vero uomo o una vera donna, per costruire la nostra personalità.
Un vero uomo o una vera donna sono coloro che non si fanno guidare dai sensi (volontà inferiore) ma dalla ragione (volontà superiore) e dall’intelletto perché se ci faremo gestire dai sensi saremo schiavi per tutta la vita e dei nostri stessi sensi (v. catechesi n. 9).
Costruire la propria personalità, comporta ascesi, combattimento, lotta continua, agire contrariamente [agere contra (v catechesi n. 10)] a ciò che sentiamo.
Come abbiamo visto nelle catechesi precedenti, non bisogna mai smettere di combattere ed è necessario farlo in modo reiterato cioè sempre anche quando, nonostante l’impegno, sentiamo e diciamo che non ce la facciamo a lottare perché la prova da affrontare, la strada da percorrere e il lavoro da eseguire ci sembrano troppo gravosi e il risultato irraggiungibile. Questo significa che Satana ci sta convincendo a desistere dal lottare demotivandoci, distruggendo le nostre aspirazioni, le nostre convinzioni e i nostri obiettivi, facendoci percepire quella situazione come insuperabile e inducendoci a non provare neanche a cercare di superarla e vincerla perché tanto non ce la facciamo. Per non lasciarci ingannare, non dobbiamo concentrarci sulla grandezza e l’insormontabilità del problema da affrontare perché se la volontà superiore acquisisce questa informazione ci faremo trascinare dalla volontà inferiore che ci porterà a rinunciare alla lotta. Dobbiamo invece soffermarci sulla voce interna (Satana e i sensi), che ci dice che non possiamo farcela e che ci porterebbe a dire no al combattimento, concentrandoci e facendo affidamento sulla volontà superiore che rimane sempre libera di decidere se intraprendere la lotta oppure no e che ci darà tutte le motivazioni necessarie per andare avanti. Se assecondiamo i sensi più di una volta, non saremo più in grado di gestire la nostra volontà superiore perché questa perderà la capacità di formulare un giudizio e quindi contrastare la volontà inferiore.
Di fronte alle prove e alle provocazioni noi siamo sempre liberi di dire no al peccato e possiamo farlo mettendo in atto il processo di difesa del nostro castello interiore, cioè vedere il nemico da lontano, preparare prima le armi di difesa, non farlo entrare nel castello interiore. Se ci si presenta una situazione che potrebbe portarci al peccato e non mettiamo in atto il processo perché questo non avvenga, abbiamo già ceduto al peccato prima che la situazione si verifichi, l’abbiamo cioè voluta e preparata.
Con “Siate pronti” (estote parati) (Lc 12,35), Gesù non intendeva significare di essere vigili e di farsi trovare in grazia di Dio perché la morte può arrivare inaspettatamente, ma voleva dire “Siate pienamente voi stessi” (compos sui) sempre, cioè siate pronti in ogni istante a gestire ogni attacco del nemico.
Se prima di agire valutiamo le conseguenze di quella azione avremo l’opportunità di non commettere un errore. Applicando gli strumenti che abbiamo visto nella presente catechesi e in quelle precedenti, saremo in grado di gestire e prevenire gli errori e quindi di non sbagliare più. Se non mettiamo in pratica queste strategie, pur conoscendo la fragilità dei nostri sensi e il ripetersi dei peccati nei quali siamo incorsi, ricadremo sempre negli stessi peccati e la colpa sarà solo nostra. È fondamentale credere più nel nostro potere di dire no che nella potenza del nemico, cioè credere che formulare un atto di volontà con decisione può gestire anche il nemico. Il problema di chi non crede in sé stesso sostenendo di essere debole perché è caduto tante volte nello stesso peccato, è quello di non mettere in atto le strategie descritte e di intraprendere il combattimento. Se lo facesse sarebbe forte non debole. Per opporci al nemico dobbiamo esprimere l’atto di volontà anche verbalmente: se quando stiamo per cedere diciamo a voce alta “Non cedo”, tutto si calmerà.
Lorenzo Scupoli, inoltre, ci dice anche che l’arma che dobbiamo utilizzare nel combattimento è la preghiera che è l’arma più potente che ci sia e che unita alla volontà è infallibile. La preghiera, però, deve essere preceduta dal processo di difesa del nostro castello interiore, dalla lotta contro gli appetiti sensibili e contro il peccato, da sola non basta.
La preghiera è l’anima dell’intelletto e della volontà, dà la grazia per rinforzarli e li porta a compimento. La preghiera alimenta l’intelletto e la volontà non il cuore. Coloro che pregano per sentire qualcosa, per stare bene, per chiedere la pace sbagliano perché Dio non è chiamato a darci la pace ma la capacità di essere un vero uomo o una vera donna e noi possiamo essere uomini o donne veri quando siamo capaci di saper dire no o sì, non quando ci batte il cuore. I frutti della preghiera si vedono nel momento in cui diventiamo persone che hanno piena padronanza e si fanno guidare dall’intelletto e dalla ragione (volontà superiore).
Sopra la volontà c’è l’intelletto. Nella catechesi n. 5 abbiamo visto che il primo esercizio da fare per combattere contro il peccato è quello dell’intelletto inteso come atto riflessivo attraverso cui l’uomo diviene consapevole delle sue percezioni e contrapposto sia alla volontà (cioè alla facoltà e alla capacità di volere, di scegliere e porre in essere un comportamento per il raggiungimento di un determinato fine), sia alla sensibilità (cioè alla capacità, all’attitudine a ricevere impressioni attraverso i sensi).
Nel combattimento, quando sentiamo e diciamo che non ce la facciamo a lottare, la volontà può rafforzarsi solo colloquiando e interrogando l’intelletto che ci risponderà che possiamo farcela. In particolare, per tranquillizzare la nostra volontà, dobbiamo valutare con l’intelletto le seguenti cose:
- se abbiamo creato noi la situazione contro cui ci troviamo a combattere, dobbiamo comprendere che le pene che soffriamo dobbiamo sopportarle perché le abbiamo volute e preparate noi. Ecco perché dobbiamo sempre valutare le conseguenze delle nostre azioni;
- se ci troviamo in una situazione nella quale non abbiamo colpa, non dobbiamo ostentare la nostra innocenza perché non saremo colpevoli in questa circostanza ma sicuramente in passato avremo commesso errori che non abbiamo ancora pagato e dei quali dobbiamo assumerci la responsabilità e rendere grazie a Dio che nella sua grande misericordia non ha punito;
- nel regno dei cieli si entra per la porta stretta delle tribolazioni (Mt 7, 13-14) delle rinunce, delle difficoltà e dei problemi perché sono essi che ci forgiano e ci insegnano a lottare;
- Gesù è passato attraverso la croce, quindi, per diventare un vero uomo o una vera donna bisogna passare attraverso la croce e non attraverso la gloria che è fondata sul nulla e sulla vanità;
corrispondere alla volontà di Dio che per l’amore che ha per noi si compiacerà di ogni atto di virtù e mortificazione che ci vedrà fare per essere conformi a Lui con amore. E anche quando la situazione che stiamo attraversando può sembrare disordinata e incomprensibile dobbiamo amarla perché essa per il Signore ha in sé un ordine perfettissimo e perché lo stiamo gestendo nella sua volontà e a maggior sua gloria.